Le logiche del PD e Reichlin che vola alto

settembre 27, 2007

(28 Set 07)

Emanuele Macaluso
Lo storico Piero Craveri è stato uno dei garanti della Costituente del Pd a Napoli. Sul “Mattino” è apparso un suo articolo con questo incipit: «Il Pd a Napoli e in Campania sta crescendo come un brutta copia della Dc». Brutta copia della Dc di Gava e Pomicino, avete capito? Infatti lo storico napoletano fa proprio quei nomi e osserva che nel Pd «le logiche interne sono quelle della riserva indiana con tribù in lotta tra loro, rispetto a cui la logica politica è solo un paravento». Antonio Polito ha detto che i segretari regionali che verranno eletti nel Pd «rischiano di essere piccoli Quisling o dei Putin» e Craveri gli dice che non c’è bisogno di scomodare la Gestapo e il Kgb, dato che la Campania ha storicamente altri esempi, assai più collaudati, di clientelismo e malavita politica. Ma la Campania non è un eccezione rispetto ad altre regioni: nel Sud, al Centro e al Nord.
Luca Telese, dall’ufficio di Bettini, sul “Giornale” ha raccontato le ultime sistemazioni nelle liste veltroniane. C’è da rimpiangere Franco Evangelisti e le sue telefonate per Andreotti. Cronache da dedicare al mio amico e compagno Alfredo Reichlin che continua a volare alto, così alto da non accorgersi cosa succede in questa terra.


De Mita: «Io fuori? Una provocazione»

settembre 27, 2007

(27 Set 07)

Lioni. «Mi dispiace, dovrete fare ancora i conti con la mia presenza». Ciriaco De Mita sale sul palco del centro sociale di Lioni e con una battuta esorcizza la questione del mancato accoglimento delle liste nazionali di Campania Democratica mentre apre la campagna elettorale per le Primarie del Pd. Certo, quella ricusazione, per quanto «tecnicamente frutto dell’utilizzo di un meccanismo procedurale male interpretato», per lui è stata una «provocazione».

«Sì, non mi spiego – confida – tutto questo in un partito che nasce, che si fa, che è per aggregare e non ”contro” qualcuno. Logico che non ci sia entusiasmo, sarebbe strano se ci fosse, perchè è difficile suscitare entusiasmo se i giocatori della squadra si prendono a calci». Ed allora De Mita racconta che quasi stava disertando l’appuntamento di Lioni, al cospetto di centinaia di persone, accolto dalla padrona di casa Rosetta D’Amelio, diessina assessore regionale alle Politiche sociali.

«Certo – afferma De Mita – non c’è partecipazione rassegnata, ma nemmeno entusiasta. Dobbiamo crescere, dialogare, far capire». Il leader della Margherita, allora, ascolta con attenzione l’intervento di una ragazza ventenne, Luana Evangelista, della Sinistra Giovanile, che lo segue in lista, al numero due. «Proviamo insieme a saldare – le dice De Mita – tensione ideale dei giovani e sapienza».

Il leader di Nusco è animale elettorale, che si sente già dentro la competizione. «Da questo collegio – afferma – mi aspetto che la lista raccolga almeno 15mila consensi». E l’assessore regionale, D’Amelio, afferma che «il compito di tutti i candidati sarà quello della mobilitazione, del portare al voto gente che si convinca che con la partecipazione si può approdare ad un nuovo orizzonte politico». E se Sena avvisa sui «rischi verso il 14 ottobre di una deriva inquinante, di intrighi e infiltrazioni tesi a delegittimare», De Mita non resiste a qualche chiosa feroce. Verso Gad Lerner («ma ad Avellino, in un confronto con me, non aveva detto che mi avrebbe visto padre nobile del Pd? Sia chiaro, ho deciso io di non candidarmi quando mi sono accorto che potevo farlo»), Rosy Bindi («lei parla contro le oligarchie, ma chi l’ha messa al governo, forse lo Spirito Santo?») ed Enrico Letta («è sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, senza mai essersi impegnato in una campagna elettorale»).

E difende il candidato campano Tino Iannuzzi. Così: «Altro che candidato oscuro. È parlamentare attento, scrupoloso, preparato sulle vicende regionali. E lasciate che ve lo dica io, che alla Camera sono seduto accanto a lui. E vicino a De Luca».


«Voto leale, non arruoliamo giocatori di squadre avversarie»

settembre 25, 2007

(25 Set 07)

Gianni Colucci
«Basta conflitti, ma anche basta a chi pretende di dire dove sia il bene e dove il male. All’arroganza rispondiamo con la mobilitazione», Tino Iannuzzi – alla convention che ha aperto la sua campagna elettorale per l’elezione a segretario regionale del Pd, sceglie bene le parole ed evita i toni da crociata. Ma qualche colpo ben assestato a De Luca lo piazza. «Io nel gioco della gestione del potere sono sempre stato fuori. Le accuse ridicole sulle spartizioni non le accettiamo». E poi sgombera il campo anche dall’idea del municipalismo esasperato, cavallo di battaglia di De Luca: «E’ un’idea destinata ad un malinconico tramonto». Conclude con la sua biografia di salernitano «vero», un argomento inedito in assoluto da contrapporre al cantore della salernitanità: «Non vengo dall’anno zero, sono di questa città e le mie battaglie le ho fatte per tutti. Ho lavorato sul territorio e mi conoscete». E si toglie lo sfizio di rimbeccare anche il sindaco ”del fare”: «Il centro sociale di Matierno, 1,5 milioni sollecitati da me in Finanziaria: c’è il progetto ma non l’appalto, perchè non lo si fa?». E non può mancare la riflessione sull’appello alle destre. «Noi chiediamo il voto a chi rivendica di appartenere alla nostra cultura, non immaginiamo di alterare le regole del gioco portando in campo i giocatori con la maglietta della squadra avversaria. Chi agita queste armi si vede che ha paura, sa di non potersi confrontare con noi».

C’è spazio anche per il programma: «Vogliamo far dialogare il Mezzogiorno con il Paese e puntiamo a fare della Campania la capofila delle regioni meridionali che non chiedono assistenzialismo ma infrastrutture». E poi ricorda che l’impegno istituzionale sulle infrastrutture coincide con la sua idea di sviluppo complessivo, lontano dai municipalismi e basato su una filiera istituzionale che metta insieme le istituzioni regionali, comunali e territoriali a maggior ragione perchè governate tutte dal centrosinistra. Un’idea diametralmente opposta all’eterno conflitto che ha connotato i rapporti interistituzionali e finanche territoriali dell’era De Luca. «Penso a investimenti concentrati per filoni e grandi opere: la Avellino-Salerno e la Contursi-Lioni ad esempio». E concede al sindaco di Salerno solo il sostegno all’idea della provincializzazione della gestione dei rifiuti e la realizzazione di un termovalorizzatore per la città. Riconferma l’impegno per l’azienda ospedaliera e la facoltà di medicina e non rinuncia a dire che è stato lui a lavorare per aumentare i posti alla facoltà e per portare i fondi per la clinicizzazione dell’ospedale di San Leonardo: «Gli altri dov’erano?», chiede polemicamente.

Ma conclude conciliante: «Il futuro arriva il 15 ottobre. Per questa cosa tutta da edificare abbiamo bisogno della partecipazione di ognuno. Per questo i toni da guerra civile non mi piacciono». Mario De Biase sorride quando ancora lo chiamano sindaco. E non si sottrae alla richiesta di commenti su De Luca: «La censura di Veltroni non arriva? Bettini, il braccio destro di Veltroni, quel che c’era da dire le ha dette. Queste sono cose già viste. Non ricordate i manifesti? Quelli che dicevano ”grazie Mario?” quando era lui candidato? Ebbene anche quello era un modo per fare voti, senza tanti complimenti. Bisogna capire che stiamo facendo una cosa nuova, chi non lo capisce è superato dalla storia».

E tra i volti che si rintracciano nella grande sala dell’hotel sul mare ci sono anche inedite presenze come quella di Raffaele Ferraioli, consigliere comunale delegato alla sanità. Ma è l’ala sanitaria della Margherita a non far mancare il proprio sostegno: manager (in testa Bianchi), direttori sanitari (dal Vallo di Diano e dal Saprese soprattutto), l’ex sindaco di Nocera Montalbano. Infine, presenti anche se in parte divisi, i segretari dei sindacati: da una parte Ciotti e Tavella, all’altro capo della sala Riccardo Fiore. Infine i docenti universitari: Stanzione, Amendola, De Simone; il presidente della Sdoa, Paravia. E per le imprese il presidente del Cidec Mario Arciuolo e gli ex assessori di De Biase Mauro Scarlato e Ambrogio Ietto. Un «in bocca al lupo» via telegramma, infine, da Tommaso Biamonte.


«Il mio appello? A chi si è stufato di De Mita»

settembre 25, 2007

(25 Set 07)

Piera Carlomagno
Né corrette, né smentite, né ritirate. Spiegate sì, anche rafforzate si può dire. Il sindaco di Salerno Vincenzo De Luca, tranquillo come se non avesse scatenato la prima grande polemica nel nascente Pd, torna sulle parole pronunciate venerdì scorso in televisione e le sottolinea: «Non è stato un appello al centrodestra, ma a tutti i cittadini liberi, anche quelli che hanno votato il centrodestra».

Perché? Semplice: «Non stiamo qui a chiudere il partito a Ds e Margherita, altrimenti saremmo finiti». E rincara la dose: «Mi sembrerebbe un’idiozia, un’ipotesi non molto affascinante. In tal caso sarebbe meglio che chiudessimo bottega». Poi chiarisce: «Il Pd è un progetto che si rivolge a tutte le persone per bene, ai cittadini seri, a quelli che vogliono rinnovare la politica, a quelli che non ne possono più di Ciriaco De Mita. Mi sembra di farmi capire quando parlo».

Il punto è proprio questo: non soltanto l’appello al centrodestra, che di fronte alla nascita di un soggetto politico nuovo, ci potrebbe anche stare per alcuni (ma che ha comunque scatenato le reazioni della coordinatrice del comitato elettorale in Campania Teresa Armato e del segretario regionale dei Ds Enzo Amendola), ma l’attacco interno all’asse De Mita-Bassolino. Le parole di De Luca («alle primarie vadano a votare tutti… perché l’unico vero obiettivo è la liberazione dai notabilati sostenuti dall’asse di potere De Mita-Bassolino») sono suonate come la prima ammissione “di colpevolezza” agli anti-Pd di destra e di sinistra, che giurano su sicure divisioni e guerre fratricide prossime venture.

E, come se le primarie del 14 ottobre non fossero una maniera democratica per organizzare il nuovo partito, ecco serviti su un piatto d’argento i vecchi duelli De Luca-Bassolino e Villani-De Mita ereditati senza tassa di successione dagli altrettanto vecchi Ds e Margherita. E però, dopo aver esplicitato ancora meglio il concetto: «Costruiamo un Pd dai confini ampi per contribuire a superare i clientelismi che inquinano la politica campana», il sindaco De Luca alla domanda: ”Come commenta allora la nota della Armato a Veltroni?”, risponde con una battuta: «La Armato? Chi è la Armato?».

Per quanto (non) si sforzi, all’onorevole De Luca non riesce proprio di mostrarsi (almeno) politically correct, neanche in pieno “polverone”. Così ha definito la polemica il segretario Ds Alfredo D’Attorre, che da parte sua ha trovato normale che il confronto (leggi primarie) coinvolga anche gli elettori che non hanno votato Margherita o Ds, che a sua volta ha parlato di «assetti di gestione del potere del centrosinistra regionale» e che ancora una volta ha confermato che la linea ufficiale del partito (vecchio) non può discostarsi da quella di De Luca.

È evidente che il diktat romano di Goffredo Bettini, braccio destro di Veltroni, non ferma il sindaco. Da Roma, per bocca del braccio destro del leader del nascente Partito democratico, gli è stato contestato che le parole del suo appello elettorale «non sono nello spirito di chi vuole costruire il Pd come grande forza del rinnovamento della politica, del suo linguaggio, delle sue pratiche». Lui ancora ieri, oltre a precisarne il senso politico, ha ribadito che non compie nè ritirate e nè smentite a se stesso. E così, su un altro teatro politico, entra ancora una volta in scena il ”caso Salerno”.


D’Attorre: alzano polveroni anziché pensare ai problemi

settembre 24, 2007

(24 Set 07)

f.s.

«Le primarie devono affrontare i disastri del governo regionale per attrarre quanti votano per il centrodestra o hanno abbandonato l’Unione». Alfredo D’Attorre rinuncia alla difesa d’ufficio di Vincenzo De Luca, «della quale – spiega – il sindaco non ha bisogno», per andare al nocciolo della questione: ci sono dei problemi gravi in Campania, dice il segretario provinciale dei democratici di sinistra, problemi che non è più possibile nascondere e che bisogna affrontare pubblicamente coinvolgendo l’opinione pubblica, tutta senza rinchiudersi negli steccati del centrosinistra.

Il caso-De Luca continua a scuotere il centrosinistra. È d’accordo con le dichiarazioni del sindaco? «Mi sembra che si stiano alzando polveroni che non servono a niente: se qualcuno pensa di convincere gli elettori sulla base di comunicati che arrivano da Roma è fuori strada».

Che significa? «Significa che dobbiamo utilizzare queste tre settimane che mancano al voto per le primarie per affrontare temi di fondo che non possono essere elusi».

Ma che c’entrano gli elettori del centrodestra, che De Luca ha invitato a partecipare alle primarie? «Da un lato come centrosinistra noi abbiamo l’obbligo di approfondire questi problemi, dall’altro è auspicabile che questo confronto coinvolga anche gli elettori che non hanno votato Margherita o Ds o che, come dimostrano le ultime elezioni e soprattutto il primo turno alle amministrative, si sono allontanati dal centrosinistra proprio per i disastri che si protraggono in diversi settori della politica regionale».

Quindi? «A mio avviso dobbiamo fare uno sforzo perché il processo di formazione del partito democratico parli anche agli elettori che non fanno già parte di Ds e Margherita e che non fanno proprio parte del centrosinistra».

Altrimenti? «Il partito democratico, per indicazione dello stesso Veltroni, nasce come un partito a vocazione maggioritaria e in Campania non può rimanere rinchiuso negli attuali assetti di gestione del potere del centrosinistra regionale».


Andria: quel richiamo rischia di inquinare il voto

settembre 24, 2007

(24 Set 07)

Gian. Col.

«Il richiamo agli elettori di destra? In effetti non ci si iscrive al Pd andando a votare alle primarie. Ma si può inquinare il voto». Alfonso Andria dopo l’affondo abbozza un sorriso: «Questa volta sono io a puntare sulla salernitanità. Io sostengo un salernitano, Iannuzzi; e lo faccio con i modi della politica educata. Quella maleducata allontana la gente».

Torna l’eterno scontro Alfonso Andria e Vincenzo De Luca, eterni nemici costretti a militare nella stessa compagine, si contendono ancora una volta la piazza salernitana. «A Salerno ci sono due sensibilità non omologabili, ma questo è un concetto sano della democrazia. Ma io non mi sento contro nessuno. Da tempo sto conducendo una campagna capillare per il partito e non solo nella Margherita».

A Salerno al lavoro c’erano anche altri: De Luca, Villani… «Io li ho invitati il 24 luglio ad una riunione con Pistelli, c’erano centinaia di persone che avevano partecipato agli incontri preliminari. Parlarono 24 giovani tra i 30 e i 40 anni… loro non c’erano». Anche De Luca fa appello a tutti, anche al centro destra. «Quell’appello la dice lunga su come si vuole vivere questa fase. Non stiamo facendo una guerra. Chi la vive come uno scontro ha della politica una concezione tribale. Non possiamo dare un’idea ringhiosa di questo processo. La gente finisce per chiedersi perchè debba starci in questa faida o baraonda o regolamento di conti».

Margherita e Pd non sono mai riusciti a dialogare davvero in provincia di Salerno… «Vivo questo momento per costruire e non distruggere, senza l’idea di lanciare bombe: e poi al Comune c’è una lista civica e non il Pd. Ma i partiti sono superati dagli eventi, adesso. Inutile continuare ad emettere sentenze o anatemi».

Cosa si aspetta da Veltroni? «Beh, io con Veltroni e Fraceschini mi sono schierato da tempo, altri hanno atteso prima di collocarsi. Non aspetto indicazioni dall’alto». Invece… «Invece altri subiscono pressioni psicologiche. Sono soggiogati. Constato una contraddizione, tutta salernitana: si va verso la vittoria di Veltroni in regione mentre in provincia c’è un clima di terrore e si spara da un marciapiede all’altro».


Nel mondo una politica bipartisan

settembre 21, 2007

(21 Set 07)

Walter Veltroni
Caro Direttore,
all’inizio del XX Secolo la popolazione del pianeta superava di poco il miliardo di persone; in cent’anni il numero si è sestuplicato e 2 abitanti su 5 della Terra sono indiani o cinesi. È un mondo nuovo, che vede crescere l’aspettativa di vita degli europei di quasi tre mesi ogni anno e che registra il calo drammatico della vita media nei Paesi più poveri dell’Africa.
E’un mondo in movimento, nel quale aumenta il numero di chi viaggia per lavoro o per il piacere della scoperta, ma anche chi migra all’interno dello stesso continente o fra un continente e un altro inseguendo il sogno di una vita migliore. È un mondo che ha rivoluzionato il senso delle distanze, avvicinando con Internet idee e persone che vivono a migliaia di chilometri ma anche separando identità che vivono fianco a fianco. Dalla caduta del Muro il cambiamento rimane la cifra vera di questo tempo, un cambiamento che continua a stupire per intensità e rapidità, che apre orizzonti e offre opportunità, ma nasconde anche vecchie insidie e nuovi veleni. In questo tempo il Partito democratico vuole offrire all’Italia una visione di politica responsabile e capace di mobilitare le risorse della nostra comunità nazionale, in particolare delle nuove generazioni, destinatarie domani delle nostre scelte di oggi.

Responsabilità condivise
Il mondo nuovo sarà sempre più multipolare. Ce lo conferma l’emergere della Cina come superpotenza economica ma anche politico-militare, l’affermazione dell’India con la sua democrazia e la sua modernizzazione, il ritorno della Russia, l’ascesa di Paesi leader continentali come Sudafrica e Brasile. Questo comporterà il ripensamento del ruolo dell’Europa e più in generale il ridimensionamento dell’Occidente: nuove leadership, nuovi equilibri e dunque nuove strategie. È per questo indispensabile, oggi più di ieri, ribadire la scelta per una politica multilaterale e l’impegno italiano nelle organizzazioni internazionali che ne sono lo strumento. Un impegno che vive anche attraverso le missioni di pace in cui l’Italia è protagonista grazie alla professionalità e alla generosità dei nostri soldati. Siamo anche convinti che per giungere davvero a istituzioni sovrannazionali capaci di gestire le nuove sfide globali, per fare divenire questi strumenti più efficaci nei risultati e più rappresentativi di questo mondo nuovo, occorra continuare a lavorare per la riforma delle Nazioni Unite e delle istituzioni finanziarie internazionali, del Consiglio di Sicurezza, per l’istituzione di un Consiglio per lo Sviluppo Umano e di uno per l’Ambiente.

Avanguardia europea
Il Partito democratico deve rilanciare in Europa il processo d’integrazione politica. L’Italia ha scommesso tutta se stessa sull’Europa fin dalla sua nascita, convinta che il massimo dell’integrazione comunitaria coincidesse con il massimo dell’interesse nazionale. L’Europa massima possibile, dunque, non quella minima indispensabile. L’Europa non come problema ma come prima risposta politica a chi dice che la globalizzazione è ingovernabile. Questo ci ha spinti ieri a essere molto esigenti nella scrittura del trattato costituzionale e a lavorare ora per non disperdere la sostanza di quel lavoro, per chiedere una politica estera e di sicurezza comune, una politica di rinnovamento del modello sociale europeo, un maggiore impegno verso ricerca e innovazione. Ma se l’Europa a più velocità già esiste nei fatti, dobbiamo impegnarci per una vera democrazia europea. Se necessario, sia un nucleo forte di Paesi a procedere per primo sulla strada che porta a una vera e propria Unione politica. Una fase costituente dell’Europa politica per diventare global player, per uscire da un’idea paternalistica di Europa per gli europei e giungere finalmente a un’Europa degli europei. Vogliamo scommettere fin d’ora sulla generazione figlia del programma Erasmus, estendendolo e potenziandolo fino ad arrivare a rendere normale per tutti un periodo di studio all’estero di almeno sei mesi. Le elezioni europee del 2009 avranno una grande rilevanza: noi rappresenteremo l’idea di un’Europa più forte e democratica con l’obiettivo di costruire al Parlamento e nel nostro continente un grande campo dei democratici, dei socialisti e dei riformisti, a vocazione maggioritaria.

L’hub mondiale del nuovo secolo
Il Mediterraneo è tornato a essere un grande crocevia del mondo e l’Italia può giocare la sua straordinaria posizione costruendo un circuito «euromediterraneo» che offra opportunità inedite nei trasporti, nell’uso delle risorse, dell’ambiente, dell’energia, nel governo dei flussi migratori, nel dialogo interreligioso e culturale. La nostra collocazione fa di questo mare e del nostro Paese il nuovo hub mondiale dei commerci con l’Oriente e delle rotte energetiche provenienti dal Caspio, dal Golfo, dalla sponda settentrionale dell’Africa. Il Mediterraneo deve divenire il luogo del dialogo politico-culturale che ricompone le gravi fratture del nostro tempo, e l’Italia l’esempio della miglior convivenza possibile. Occorrono però programmi di modernizzazione industriale e infrastrutturale, promozione d’investimenti, corridoi che leghino la sponda Sud alle reti europee, sostegni alle piccole e medie imprese italiane assai adatte a diffondersi in quest’area. L’iniziativa europea verso i Balcani occidentali e la Turchia per un loro futuro accesso all’Unione è nostro interesse strategico. L’Italia deve favorire le riforme in quei Paesi e la loro stabilizzazione istituzionale e sociale che resta l’unico modo per garantire il superamento dei conflitti che li hanno attraversati.

Amicizia responsabile
L’Italia deve mostrare agli Stati Uniti d’essere un Paese non solo amico ma utile. Alla fine della guerra fredda abbiamo perso il nostro ruolo di frontiera della frattura Est-Ovest, ma per noi il legame atlantico resta vitale poiché costruito su una comunità di valori e di principi. Dobbiamo però da un lato confermare la funzione di Paese amico poiché influente e ascoltato in Europa, dall’altro interpretare la novità possibile: la centralità del Mediterraneo, l’integrazione dei Balcani e della Turchia, il dialogo con il mondo arabo sono obiettivi che rispondono anche alla necessità di garantire la pace, la sicurezza, e la lotta al terrorismo. Infine, deve essere chiaro che amicizia e lealtà implicano, se necessario, esprimere diversità di opinioni così come negoziare pragmaticamente la propria agenda. Una cosa, ad esempio, è appoggiare il modo in cui gli Stati Uniti si seppero muovere, nel segno del multilateralismo, per intervenire in Afghanistan all’indomani dell’11 settembre, altro è «stare con gli americani a prescindere», come è stato detto in occasione della sventurata guerra in Iraq. Tanta acriticità non serve a noi, e si è rivelata poco utile anche a loro.

No excuse
Pace, democrazia e sviluppo sono obiettivi importanti per l’Italia e devono divenire una priorità per tutta la comunità internazionale. È in particolare in Africa che le sfide globali devono essere vinte, a cominciare dal raggiungimento degli «Obiettivi di sviluppo del millennio» fissati dalle Nazioni Unite e sui quali scontiamo un inaccettabile ritardo. Ma occorre intensificare gli sforzi per superare la tragedia del Darfur, per stabilizzare il Congo, per dare una risposta alle altre crisi come in Somalia e in Zimbabwe. Il prossimo summit euro-africano che si terrà a Lisbona dopo un’interruzione di ben sei anni dovrà produrre risultati effettivi per lo sviluppo, la prevenzione dei conflitti, l’affermazione dello Stato di diritto. La lotta all’Aids, la sicurezza alimentare, la promozione della democrazia, il sostegno alla società civile sono le priorità di un rinnovato impegno italiano nella cooperazione internazionale. Il nostro Paese possiede uno straordinario patrimonio di solidarietà e di competenze nella società civile, nelle ong e nelle istituzioni locali. È tempo di valorizzarlo attraverso una nuova legge sulla cooperazione e un incremento programmato delle risorse disponibili. Lottare contro la povertà, dare speranze di una vita dignitosa, rappresentano un imperativo morale e una necessità, perché le ingiustizie, oltre che inaccettabili in sé, diventano fonte di insicurezza per tutti.

Fermiamo le ingiustizie
L’iniziativa per una moratoria delle esecuzioni capitali ha incontrato un grande successo che speriamo di confermare anche alla prossima riunione dell’Assemblea Generale dell’Onu. Il sostegno europeo all’azione italiana premia la costanza delle organizzazioni che da tempo si battono per questo obiettivo, ma anche l’impegno del Parlamento, della diplomazia e del governo. E del resto la nostra elezione nel Consiglio di Sicurezza e poi nel Consiglio sui Diritti Umani riconosce sia l’attivismo italiano che il nostro tentativo di valorizzare comunque un coordinamento europeo che operi per un multilateralismo efficace. L’affermazione dei diritti umani è un faro che deve orientare la nostra azione: la Corte di Giustizia e il Tribunale Penale Internazionale devono essere il centro di un sistema che garantisca la punizione dei crimini più gravi, ma anche gli accordi di cooperazione siglati dal nostro Paese dovranno contenere clausole serie relative alla tutela dei diritti umani.

Cambiare aria per un mondo sostenibile
L’umanità vive una crisi ecologica su scala planetaria. Ciascuno di noi lo avverte sulla propria pelle: clima impazzito, stagioni irriconoscibili, inquinamento, desertificazione e riduzione della biodiversità. E in più l’accesso all’acqua potabile ancora negato a oltre un miliardo di persone. Una politica internazionale moderna deve assumere la sfida dei cambiamenti climatici come stella polare, come insegna la recente iniziativa guidata da Al Gore. Non serve allarmismo, ma un’immediata e responsabile consapevolezza del rischio. Il genere umano ha la possibilità di salvaguardare la natura e di soddisfare i propri bisogni grazie a uno sviluppo sostenibile, dato che le conoscenze scientifiche e le innovazioni ci offrono nuovi sistemi produttivi, nuove merci e servizi meno inquinanti e a basso consumo di materiali ed energia. Il raggiungimento degli obiettivi di Kyoto, rafforzati dalle decisioni dell’Unione sulla CO2, e la fissazione degli obiettivi per il periodo successivo al 2012, vanno considerati una priorità e un’occasione irripetibile. In questa emergenza è positiva l’idea di creare una nuova istituzione internazionale, una sorta di Consiglio di Sicurezza dell’Ambiente, che sia parte integrante del sistema delle Nazioni Unite, che riunifichi e rafforzi competenze sinora deboli e disperse, che sappia promuovere un «nuovo ordine ambientale».

Nuove energie
La tendenza al superamento dei combustibili fossili e l’impiego di fonti di energia rinnovabile a ridotto impatto ambientale ci spingono verso nuove soluzioni. È indispensabile che l’Italia si doti nel quadro europeo e internazionale di una strategia di sicurezza energetica che comprenda la certezza dell’accesso alle fonti, il risparmio energetico, la diversificazione, l’impatto ambientale, la ricerca e lo sviluppo di fonti alternative. Occorre investire sulle energie rinnovabili. Il loro impiego permette non solo di ridurre le emissioni di gas a effetto serra, ma anche l’eccessiva dipendenza dalle importazioni di combustibili fossili. Dobbiamo perciò seguire con convinzione la strada indicata dal recente Consiglio europeo: arrivare entro il 2020 a una quota del 20% di energie rinnovabili e a una quota minima di biocarburanti del 10% nel settore dei trasporti.

Allontanare la minaccia nucleare
L’umanità sta rischiando concretamente di entrare in una seconda era nucleare. È uno spettro reale. Dopo anni di riduzione degli arsenali, Stati Uniti e Russia sono tornati ad aumentare le spese per il loro ammodernamento e potenziamento. In diversi Paesi si sta facendo strada la convinzione che il possesso di armi nucleari rappresenti la migliore garanzia di sicurezza contro un attacco esterno e comunque una «carta» da spendere sul piano dei rapporti di forza in una determinata area o a livello più ampio. Troppo sottile è il confine tra scopi civili e militari per non guardare con preoccupazione alla diffusione delle tecnologie nucleari o alla crescente disponibilità dell’uranio, materia prima indispensabile per la produzione di armi di distruzione di massa. Impossibile, in particolare, non provare inquietudine di fronte alla crisi nucleare iraniana. Fermezza e dialogo sembrano aver condotto a una soluzione positiva rispetto al regime nordcoreano, che si è impegnato a smantellare i suoi impianti entro la fine dell’anno. Fermezza e dialogo dovranno essere il modo per arrivare al rispetto delle risoluzioni dell’Onu da parte di Teheran, a una reale ed effettiva cooperazione con l’Agenzia internazionale per l’energia atomica e alla sospensione dei programmi di arricchimento dell’uranio.

Oltre la siepe
Siamo testimoni, dunque, di un cambiamento storico che mette in discussione la politica estera tradizionale, ma offre anche all’Italia, alla sua privilegiata posizione geografica, alla sua cultura millenaria, l’occasione di giocare un inedito sistema di relazioni in Europa e nel mondo. Il Partito democratico offre questo insieme di scelte al dibattito del Paese. Non ci nascondiamo l’obiettivo di poter far convergere su di esse le altre principali forze politiche così da tornare finalmente a un’idea condivisa di politica internazionale – che da sempre dovrebbe essere il campo delle intese bipartisan – e da superare quelle logiche di schieramento di parte che ci hanno spesso indebolito. Sarà così possibile valorizzare l’amore e il rispetto che il mondo intero nutre per il nostro Paese e unire le grandi energie di cui disponiamo per promuovere sempre meglio gli interessi della nostra comunità nazionale che, oggi più che mai, coincidono con un più generale interesse europeo e internazionale.


Il Pd visto da un passante

settembre 12, 2007

(12 Set 07)

Guido ceronetti
Tempo un anno – la ferma di un mercenario – tutta la gloria di Qedàr sarà sparita» (Isaia 21, 16). Il richiamo a un versetto biblico di otto secoli prima di Cristo significa, diluendolo nel tempo, l’argomento. Di per sé, partito democratico ha la consistenza di un enorme vento di chiacchiere in astratto, che la realtà sta a guardare stupefatta da tanta capacità italiana di emetterne ragionandoci sopra all’infinito – ma «sotto la maschera un vuoto» (Seferis). Il versetto del profeta semitico e il verso del moderno poeta greco danno una definizione sufficiente della penuria d’essere della cosa. Penuria d’essere perché la pochezza d’immaginazione politica caratterizza patologicamente tutti i progetti che provengono da queste segreterie di partito dal malrespiro, il cui linguaggio non è mai un autentico dire qualcosa, un mordere una fettina di reale coi denti. Sembra gente che, avendone i mezzi, cerchi di allestire una grande illuminatissima vetrina di moda in via della Spiga per esporre due o tre camicette con buchi prese da una discarica e un paio di vecchie pantofole affezionate ai piedi di una pensionata che si circonda di consunto.

Al sensibile e intelligente Veltroni potrei rimproverare soltanto la sua esagerata cinefilia – perché, quanto a Roma, la città è quella che è, non puoi che lasciarla peggio di come l’hai trovata perché non la governi, se ne chiudi un focolaio se ne aprono due. Tuttavia nei suoi discorsi di candidato principe di questo Qedàr democratico anche il circolo diventa docilmente quadrato, salvo a restare circolo, duro più del torrone d’Alba. Se Veltroni osasse parlare di insolubile, cosa facilissima a chi non s’imbarca nella Nave dei Folli del potere, si avvicinerebbe troppo ad una realtà fatta quasi tutta di cose che sfuggono di mano e che non si lasciano modellare, mentre l’irrealismo che tira fuori la volontà politica, noiosamente, come filtro magico, è richiesto e imposto, a lui e agli altri, come frontiera invarcabile.

Ma di fronte all’Insolubile, una volta forzato a constatarlo, quale sarà il comportamento di chi assume un potere? Uno solo. Fingere, in uno stile oratorio che cerca di differenziarsi (e vocalmente ci riesce), che i problemi insolubili, irti di nodi con aculei, grazie al suo applaudito pilotaggio prenderanno la strada maestra della soluzione più giusta e razionale. Tenere questa fondamentale menzogna contro ogni possibile smentita dei fatti. E conosciamo – poiché l’uomo politico è per tre quarti il suo modo di esporre e di esporsi – gli stili oratori degli uomini più in vista, la veemenza – dal rimando tragico – del loro ottimismo incurabile, tratto mediatico comune. Qualunque cosa dicano o progettino, la loro impotente «volontà politica» si decompone.

Lo stesso nome, partito democratico, denuncia assenza cronica d’immaginazione: nell’evolversi del linguaggio non regge più partito, ancor meno regge democratico, un barile di Nutella. Istituzionalmente tutto quanto è già democratico, non c’è un altro container. Se partito è ormai epiteto, democratico è ovvietà al cubo. (Stessa perdita di sostanza linguistica e semantica è nell’inalberare comunista, uno spadellamento di pesce al mercurio surgelato: soltanto in Italia acchiappa voti tanta fragranza). Almeno non hanno rifritto sinistra: doversi obbligatoriamente proclamare di sinistra, riversandolo in formule perennemente false, è già mettersi in ceppi, poveretti. Gli suggerirei di aggiungere almeno italiano, perché la formulazione così appare, oltreché logora alla nascita, anche mùtila: Partito Democratico Italiano è un completamento che funziona – anche in sigla: PDI. Il rischio è che in gergo i futuri iscritti e credenti e i loro esperti manovratori vengano qualificati come demotaliani. Ma non c’è vergogna a dirsi partito italiano. Di cittadini che valgano fuori dei partiti non c’è penuria! Ma sarà di sinistra dirsi italiani? Nel timore che Italia e italiano siano «cose di destra» i padri fondatori si asterranno dall’evocarli.

Passerò in via della Spiga a vedere la loro vetrina: i prezzi, non essendo da stilisti, avranno il pudore, spero, di essere alla portata di tutti.


Il partito che vorrei

settembre 4, 2007

(4 Set 07)

Enrico Letta
Caro Direttore,
bene ha fatto ieri La Stampa, con l’editoriale di Marcello Sorgi, a porre finalmente la questione chiave delle primarie. Questo avviene a campagna già ampiamente avviata e spero possa contribuire a correggere la tendenza con la quale si sta svolgendo questa fase del dibattito. Non stiamo facendo le primarie per la premiership. Quelle le abbiamo fatte due anni fa e le rifaremo, con l’intera coalizione, in vista delle prossime elezioni politiche. Stiamo, invece, costruendo un partito ex novo. Lo stiamo realizzando con una modalità originale, coinvolgendo direttamente – o tentando di farlo – la platea degli elettori attuali o potenziali del Pd.

Si tratta anche di scegliere un nuovo, possibile, modello di forma-partito. Per questo occorre discutere e confrontarci, partendo dalla constatazione oggettiva della difficoltà di innovare la politica che ha incontrato buona parte dei partiti attualmente esistenti. Questo è un compito che, almeno in teoria, dovrebbe spettare in primo luogo a chi è all’opposizione, ma che oggi da noi è terreno di discussione tra le forze politiche che fanno parte della maggioranza.

Un merito che ha certamente consentito al centrosinistra di riacquisire centralità, ma che, di per sé, non basta. La campagna per le primarie del Pd, infatti, ha finora marginalizzato il tema, probabilmente anche per la sua complessità. Basti riflettere su un’evidenza: negli ultimi anni tra le innovazioni della politica italiana la più resistente e contagiosa è stata, senza dubbio, l’intuizione berlusconiana del «partito personale». Resistente perché dura da circa quattordici anni. Contagiosa perché l’idea che «il partito sia il suo leader» e che nei partiti «chi perde esce e fonda un altro partito personale» è diventata ormai la regola. A destra, a sinistra, al centro. Non esiste niente di simile in Europa. In Germania, Francia, Regno Unito i leader dei partiti tradizionali sono in carica solo temporaneamente. Gli uomini passano, le idee e le strutture rimangono.

Solo i Ds e la Margherita hanno abbozzato negli ultimi anni un profilo di partito diverso. Ci hanno provato, almeno. Sono riusciti a scongiurare il rischio del prototipo berlusconiano, ma entrambi hanno faticato a mettere a punto un modello compiuto di rappresentanza per l’Italia del 2015. Anche per questo nasce il Partito democratico. Per dare una risposta alla domanda – finora inevasa – di politica e di nuove forme dell’agire politico.

Mi sembra di cogliere in questo tema la vera sfida del nostro dibattito. Provo allora a tracciare i contorni di una proposta innovativa di forma-partito: rifiuto della logica personalistica; costruzione di un partito delle autonomie, non centralista, improntato al pieno rispetto del principio della sussidiarietà, con segretari regionali scelti dai democratici dei singoli territori e non decisi a Roma; prevalenza del modello orizzontale (il wiki-Pd) rispetto a quello verticale e verticistico; eliminazione di inutili barriere alla partecipazione, come l’obbligo di versare 5 euro per votare; verifica periodica dei gradi di consenso per la scelta dei candidati e rifiuto della cooptazione che continua a imperare, complice anche una sciagurata legge elettorale; scelta di una «competizione senza drammi», virtuosa e trasparente, che qualifichi il confronto. Gli spazi per la costruzione di un partito aperto, quindi, ci sono. E questo nonostante una scelta che consideravo e considero sbagliata, quella delle liste bloccate, a cui mi sono opposto nel Comitato dei 45.

Nelle ultime settimane ho avvertito un certo isolamento in questa mia voglia di discutere della forma-partito del Pd. Ne comprendo molte delle motivazioni. In primo luogo, chi sta in ciascuna delle «sale macchine» di Ds e Margherita è quasi fisiologicamente indotto a ritenere che il nodo possa sciogliersi solo con un buon aggiustamento tra i due modelli. Il grande pubblico poi è naturalmente più interessato al fisco, alla scuola, a questioni con ricadute dirette sulla propria quotidianità. I media ne prendono atto e relegano il tema ai margini. Ma è un errore. Lo stesso che fanno gli altri candidati alla leadership del Pd quando preferiscono occuparsi prevalentemente dell’agenda di governo o di altri argomenti ancora.

Il modello di partecipazione al Partito democratico è, invece, un tema centrale. Per me centrale a tal punto che nel corso del «Festival delle idee» – che si terrà a Piacenza il 14 e 15 settembre prossimi – dedicheremo alla forma-partito un forum tematico specifico. Lì metteremo a fuoco le idee che qui ho voluto solo accennare. Lì, soprattutto, proveremo a restituire la giusta centralità e il rilievo che merita alla discussione e alla volontà e alle decisioni dei nostri elettori anche su questo tema. Lo faremo continuando a occuparci di contenuti, declinando le tre parole chiave – libertà, mobilità, natalità – da cui l’appuntamento di Piacenza sarà caratterizzato. Ma lo faremo con grande determinazione. Pienamente consapevoli che, se alla domanda sul nuovo modello di partito non daremo una risposta credibile, prevarranno, in silenzio, altre logiche.


Presidente ombra

settembre 4, 2007

(4 Set 07)

Federico Geremicca
E poi dicono che la politica non è, a modo suo, una scienza esatta. Che presuppone esperienza, tecnica e perfino memoria. Ecco, se qualcuno avesse fatto ricorso almeno alla memoria, forse il centrosinistra non si sarebbe cacciato in questo gigantesco e pericoloso pasticcio che va già sotto il nome di «Prodi e il premier ombra». Sarebbe bastato ricordare che cosa accadde nel 2001 quando, con Giuliano Amato governante a Palazzo Chigi, fu invece messo in pista Francesco Rutelli come candidato premier.

Berlusconi ci sguazzò per l’intera campagna elettorale («Amato ha fatto così male che nemmeno lo candidano»): una campagna elettorale che, alla fine, lo vide largamente vincitore. Ora, si è soliti sentenziare che la storia non si ripete mai allo stesso modo, ed è in questo che deve sperare l’Unione: perché il dualismo Prodi-Veltroni non soltanto è divenuto evidente, ma sta quotidianamente segnando (a danno del governo) la polemica politica dopo la pausa ferragostana.

Da un po’, quando si riferiscono a Veltroni, alcuni ministri lo chiamano “premier ombra”. Altri, come Angius, addirittura “premier in pectore”. «Ci era stato spiegato – ha lamentato ieri il vicepresidente del Senato – che il Pd sarebbe stato garanzia di stabilità, e invece è un fattore di tensione nella maggioranza. Non possono coesistere due presidenti del Consiglio, uno in carica e l’altro in pectore: Prodi e Veltroni la piantino e si mettano d’accordo su come governare l’Italia». Facile a dirsi, più difficile a farsi, considerate le esigenze assai diverse dei due: Prodi punta sulla continuità del proprio lavoro, fida su quella che una volta si sarebbe definita politica “dei due tempi” ed è certo che alla fine il risanamento sarà raggiunto, e con esso la possibilità di metter mano alla riduzione delle tasse; Veltroni, al contrario, non è affatto convinto che il governo abbia quattro anni davanti, chiede risultati spendibili in una eventuale campagna elettorale ravvicinata ed è preoccupatissimo dall’ipotesi di finire lentamente nel pantano nel quale è costretto a muoversi il premier. Non facile raggiungere un’ intesa sul che fare.

Se alle difficoltà oggettive si aggiungono poi i sospetti prodiani sulle reali intenzioni del sindaco di Roma e quelli veltroniani su certe manovre del clan del premier, il gioco – anzi il pasticcio – è praticamente fatto. E il risultato può finire per essere quello di ieri: con i giornali che titolano “Tasse, Veltroni contro Prodi”, Rutelli che scende in campo affianco del sindaco di Roma («Bisogna dare un messaggio di riduzione fiscale già nella prossima finanziaria») e Palazzo Chigi che tiene il punto e se ne frega: «La riduzione delle imposte è un impegno di lungo periodo, la priorità è ridurre il debito». Scontro frontale, e altro che partito di lotta e di governo… Se continuasse così, l’opposizione potrebbe continuare le vacanze, che tanto a far traballare l’esecutivo ci pensa il partito che avrebbe dovuto rafforzarlo.

Dicevamo dei sospetti, e sia Prodi che Veltroni – politici di lungo corso – ne nutrono in abbondanza. Il premier non ha mai speso una parola meno che affettuosa nei confronti del sindaco di Roma: ma da giorni ci pensano gli uomini (e le donne) a lui più vicini. Rosy Bindi, per esempio, è settimane che ha messo Veltroni nel mirino. L’ultima ieri: «Non fa bene al governo né al Pd il conflitto giornaliero tra partito e governo, così come questo contrappunto giornaliero di Veltroni ad ogni azione di Prodi». Che, non va dimenticato, ha probabilmente subito – facendo buon viso a cattiva sorte – l’improvvisa accelerazione con la quale furono decise la scesa in campo del sindaco di Roma e la sua potente investitura con le primarie (ancora pochi giorni prima di quella scelta, infatti, alla guida del Pd Prodi voleva uno speaker di sua personale nomina). Se a questo si somma la convinzione prodiana che Veltroni stia diventando la testa di ponte di quanti nella Margherita non lo hanno mai amato (da Rutelli a Marini, per intendersi) si capisce il perché del tener duro del premier di fronte a qualunque sollecitazione arrivi dal sindaco.

Né meno sospettosi circa il reale gioco del capo del governo, naturalmente, sono Veltroni ed i suoi fedelissimi. Per il futuro leader del Pd l’ideale sarebbe un esecutivo che recuperasse consensi nel Paese, durasse ancora un paio di anni e gli lanciasse la volata per la prima sfida a Berlusconi. Ma Veltroni non crede praticamente più che questo sia possibile. L’ultimo mese – con la ripresa di conflittualità nella maggioranza, minacce di crisi e stallo totale sulla legge elettorale – lo hanno convinto, piuttosto, che il bivio di fronte al governo sia riassumibile più o meno così: o una penosa agonia (che renderebbe poi certa la sconfitta elettorale) o un improvviso precipitare verso le elezioni, che ai suoi occhi potrebbe perfino essere il male minore. Quel che è certo, è che per Veltroni è sempre valido il principio che illustrò il suo braccio destro, Bettini, all’avvio dell’avventura delle primarie: «Il Pd non può impiccarsi a questo governo». E che succede, allora, se la sensazione dovesse diventare quella di uno stanco tran tran, di un esecutivo – insomma – che tira a campare?

Se le cose stanno così – e i fatti, per ora, sembrano confermarlo – le tensioni tra la “strana coppia”, premier in carica e presidente in pectore, non potranno che aumentare, a tutto danno dell’azione di governo e del processo di nascita del Partito democratico. L’auspicio che formulano osservatori neutrali è che il necessario chiarimento arrivi prima che sia troppo tardi. Prodi e Veltroni sanno che non possono lasciar precipitare le cose, e si incontreranno quanto prima per decidere il da fare e scongiurare un’ipotesi che fino a ieri sembrava fantapolitica o poco più: e cioè il divorzio tra “Romano e Walter”, democratici ante-litteram e, soprattutto, gli uomini che in tandem fecero sognare l’Ulivo portandolo all’indimenticata vittoria del 1996.


Se il nuovo Pd somiglia alla vecchia Dc

settembre 3, 2007

(3 Set 07)

Marcello Sorgi
La disputa sulle correnti e il correntismo, male oscuro venuto a minare il futuro del Pd prima ancora della sua nascita, si sta svolgendo in modo un po’ astratto: inutile, se non controproducente, per un partito che deve ancora esordire, e che vuol nascere in modo nuovo, chiamando i cittadini a partecipare direttamente alla fondazione e a eleggere il leader nelle primarie. L’eccezione – non l’unica, né la più esplicita, solo la più recente – riguarda Massimo D’Alema, che, nella prima intervista a Repubblica dopo le vacanze, ha detto chiaramente che il partito che si va a costruire è fatto per contenere una pluralità di posizioni e sarà diverso in tutto e per tutto dal vecchio Pci monocratico e accentratore. Di qui una certa tensione nel dibattito interno e l’avvento di più candidature per la segreteria, che non devono stupire, anzi fanno parte del gioco.

Ciò che D’Alema non dice, ma altri dirigenti Ds e Dl hanno detto prima dell’inizio della corsa congressuale, è che il modello scelto per il nuovo partito è quello della Dc. Depurato, certo, di tutte le degenerazioni che portarono il vecchio partitone cattolico e centrista a pagare il prezzo più alto di Tangentopoli e della caduta della Prima Repubblica.

Ma, al tempo stesso, ritrovato come esempio di convivenza possibile tra linee e ispirazioni diverse, anche contrastanti, e come strumento per vincere le elezioni, andare al governo e possibilmente restarci. Che ci fosse stato qualcosa di sbrigativo, retorico, esagerato, nella cancellazione di un pezzo importante di storia italiana come quella della Democrazia cristiana, è ormai un fatto acclarato e oggetto di revisione storica. Ma potrebbe rivelarsi azzardato, oggi, restaurare il modello Dc, senza metterne in conto le conseguenze, e soprattutto senza valutare a fondo se sia in grado di stare al passo coi tempi.

Il modello di cui si parla infatti funzionò benissimo fino agli Anni 70 e all’inizio della lunga crisi democristiana, e consentì al partito cattolico di sopravvivere vent’anni più del dovuto. Era basato su un semplice meccanismo: all’interno della Dc, le minoranze contavano come e più delle maggioranze. Le correnti minoritarie, alleandosi tra loro e cercando sponde tra gli scontenti di quelle maggioritarie, riuscivano ogni anno a imporre un cambio di governo, e ogni due o tre un cambio di segreteria. Il vincitore annunciato, e scelto quasi sempre prima della celebrazione del congresso, sapeva di essere lo sconfitto designato della volta dopo. Tra gli sconfitti, invece, si preparava il prossimo segretario. In una storia di quasi mezzo secolo, le eccezioni (De Gasperi, Fanfani, Moro, De Mita) vennero quasi sempre a confermare la regola. Rivelandosi ininfluenti, più o meno, sulla stabilità dei governi e sul turn-over di ministri e sottosegretari, vero cemento, con la spartizione dei posti di sottogoverno, dell’altalenante unità interna e della buona, buonissima, o discreta, secondo i tempi, performance elettorale del partito.

Alla Dc, inoltre, la collocazione centrale, durata (fino a Craxi) per quaranta dei cinquant’anni, consentiva di dichiararsi sempre anticomunista e a favore di alleanze di centrosinistra moderate, ma di praticare in realtà, per dirla con Andreotti, la «politica dei due forni»: alleata al Governo con socialisti e laici, e in Parlamento con il Pci, a cui un’esosa finanza pubblica, della quale ancora si piangono le conseguenze, elargiva i fondi necessari al mantenimento delle regioni rosse, in cambio di un’opposizione morbida su gran parte del pubblico sperpero. Per molti anni, le leggi finanziarie (che non si chiamavano così) non erano quel parapiglia, quello scontro all’ultimo sangue, su tasse e tagli, che sono diventate oggi. L’illusione, funesta a guardarla con gli occhi di oggi, era che a spese dello Stato ce ne fosse per tutti. Era considerato un vanto, durante le trattative in commissione Bilancio o le votazioni finali, uscire dall’aula urlando, orgogliosi, «Abbiamo ottenuto tremila miliardi in più!», per questa o quella causa: ignorando, o fingendo di ignorare, che quel voto e quel compromesso sottobanco avrebbero accresciuto un debito pubblico già enorme, insopportabile e caricato sulle spalle delle successive generazioni.

Adesso che di nuove tasse è rimasta a parlare la sinistra radicale, mentre gli altri fanno i conti con costi e ambiguità delle cosiddette «politiche sociali», riflettere sull’epoca in cui i partiti (all’apparenza) andavano bene e il Paese male può servire, almeno, per non ripetere gli errori. Certo, tutti insieme, Veltroni segretario in pectore, i due avversari forti Bindi e Letta e il gruppo di outsider pronti a costituire una minoranza di blocco, fanno un perfetto quadro di vigilia democristiana. Toccherà a loro convincere gli elettori delle primarie che non sarà così.

Ma la domanda vera da farsi è se il modello post o neo Dc sia ancora adeguato a una moderna, e anomala finché si vuole, democrazia come quella italiana. A un sistema in cui la centralità non è più di nessuno, ma, giorno dopo giorno, di chi la occupa con slogan e strategie di marketing più efficaci. Al quotidiano confronto-scontro, da mattina a sera, nella miriade di interviste e talk-show televisivi. Alla competizione basata sulla faccia tosta, più che sulla proposta. E alla rincorsa a distinguersi, sempre, pur di avere l’ultima parola.

È in questo quadro che il Pd nascituro mostra già qualche affanno, ma tuttavia dovrà misurarsi. E se è sicuro che un partito nuovo, in cui posizioni diverse possano convivere, sia preferibile a una coalizione in cui le differenze devono necessariamente emergere, c’è forse un ultimo, ulteriore elemento su cui riflettere. Pur avendo avuto la possibilità di costruirlo a sua misura, Berlusconi – non va dimenticato – ha vinto ed è andato due volte al governo con un partito monocratico e accentrato di cui detiene il controllo assoluto ormai da quattordici anni. Così, paradossalmente, è riuscito a occupare gran parte dello spazio politico della vecchia Dc con un modello che funziona un po’ come quello comunista (e in qualcosa gli somiglia). Proprio quel vecchio Pci, la cui ombra D’Alema vorrebbe cancellare una volta e per tutte.


Pd, De Mita apre sulla segreteria regionale

settembre 2, 2007

(2 Set 07)

«Non si fonda un partito sul nuovismo, sul nuovo conio, su ipotesi di alleanze diverse. Queste sono banalità che alimentano l’impotenza. Il Partito democratico ha un solo fondamento possibile: l’idea popolare di costruire, nel vivo degli interessi delle persone, una libertà che valga per tutti e per questo diventi verità condivisa».

Al convegno dei cattolici democratici (sostenitori del ticket Veltroni-Franceschini), Ciriaco De Mita ha parlato ieri dopo la relazione di Zygmut Bauman, il sociologo inventore della formula della «società liquida». È stato un discorso sulle ragioni della politica. Discorso applauditissimo. Come sempre capita in queste occasioni. Ma molti dei presenti, vertici compresi, si chiedevano che ruolo concreto De Mita intendesse giocare nel Pd. In altre parole: se avesse davvero intenzione di lanciare la sfida della sua candidatura alla segreteria regionale. Dal palco De Mita non ha fatto il minimo cenno alla questione. Ma appena tornato al suo posto in platea, dopo tanti complimenti e strette di mano, ha confidato: «Questo è il mio editoriale per il Pd. A me non importa chi lo firma. L’importante è che ci siano scritte queste cose».

Nella giornata, che oltre al confronto pubblico ha consentito tanti colloqui privati, De Mita ha precisato ai suoi interlocutori che «senza questi contenuti», non ci sarà neppure una sua adesione al Pd. Il «non ci sto» in questo caso non riguarderebbe solo la segreteria regionale. E a questa ha unito un’altra orgogliosa precisazione: «Decido io quello che deve fare. Non lo lascio decidere ad altri». Come dire: nessuno si azzardi a parlare di «passo indietro». Però la parole di Walter Veltroni a Telese (che ha negato ogni pregiudiziale verso De Mita) e quelle di Dario Franceschini alla festa dell’Unità di Bologna («Non sarà Roma a dire sì o no. Sarà la Campania a decidere il suo segretario regionale») hanno fatto calare la tensione. E forse quella battuta sull’editoriale che vale più di chi lo firma, potrebbe significare che De Mita sta pensando di candidare alla segreteria regionale non se stesso, ma un popolare a lui vicino. In ogni caso De Mita ha posto domande direttamente a Veltroni. Domande che non nascondono una critica sulla stato dell’arte.

La prima condizione posta è una base culturale solida, non affidata ad un generico nuovismo: «Desiderare il nuovo non vuol dire costruirlo, anzi spesso vuol dire perpetuare il vecchio». Seconda condizione: l’idea popolare di partito. «Il Pd non nasce per recuperare pezzi di storia. E a noi cattolici-democratici non spetta neppure la difesa delle istanze religiose. La sfida è che i nostri valori sociali e di libertà diventino la migliore convenienza per tutti».

Un partito per l’Italia. «I nuovi conii servono solo ad una politica come conquista e gestione del potere». Domande per Veltroni. Ma anche per i popolari riuniti ad Assisi per sostenere Veltroni: «Non serve una corrente cattolica nel Pd, questa cultura deve diventare il fondamento dell’intera impresa».
Per De Mita la soluzione non è quella dei «cattolici adulti» che affidano tutto alla «spiritualità individuale». Ma neppure quella di una presunta «religiosità popolare» che cerca di trasferire in politica la linea della Chiesa. De Mita non ha risparmiato una critica diretta al cardinal Ruini: «Gli rimprovero di aver contribuito a ridimensionare la cultura del popolarismo». La sua prima sfida comunque è al «gruppo dirigente» del Pd. Ora attende una risposta. Da Veltroni e Franceschini. Se l’editoriale verrà sottoscritto, De Mita potrebbe rinunciare alla competizione regionale. E magari partecipare, insieme ad altri «padri» del Pd, ad un futuro organismo nazionale.


PD, 2046 delegati per un miracolo

settembre 1, 2007

(1 Set 07)
Michele Ainis
Quale evento si prepara il 14 ottobre? Se chiedi a qualcuno dei (pochi) italiani che seguono ancora la politica, ti risponderà tutto d’un fiato: quel giorno verrà eletto il segretario del Partito democratico. Giusto? No, sbagliato. Perché il 14 ottobre verrà eletta viceversa l’assemblea costituente del nuovo partito, la più affollata, caotica e vociante costituente della storia: 2.460 delegati. Curioso che quest’audace innovazione sia passata fin qui sotto silenzio. Curioso che i candidati alla segreteria, da Veltroni alla Bindi, non abbiano avvertito l’esigenza di dire due parole sulle folli regole che terranno a battesimo il partito. O forse no, non c’è da meravigliarsene. Forse tutti tacciono perché un po’ se ne vergognano. Ne avrebbero d’altronde ogni ragione. Se all’orizzonte del Partito democratico c’è l’obiettivo di ridurre i costi e i posti della politica (come dichiarano all’unisono i vari candidati), non è proprio un bell’inizio. Anche perché lo stesso giorno verranno eletti nel contempo i 4.800 delegati alle 20 costituenti regionali e alle 2 costituenti provinciali. Totale: 23 assemblee costituenti, 7.260 delegati. Tombola.

Ma qui non viene in gioco solo l’eterna fame di poltrone che mette i crampi allo stomaco alla politica italiana. Né l’abuso del termine (è alle viste una «costituente socialista»), benché qualche grammo di moderazione sarebbe ben accetto. Dopotutto, se i partiti convocano assemblee costituenti per confezionare i propri statuti, significa che li ritengono importanti come la Costituzione dello Stato, e significa altresì che ciascuno partito pensa d’essere lo Stato. Anzi di più, se la forza sta nei numeri. Tanto per dire, la Costituente (quella vera), eletta nel 1946 per redigere la nostra Carta repubblicana, era composta da 556 deputati. La Convenzione di Filadelfia, che nell’estate del 1787 scrisse la Costituzione americana, fu un cenacolo di 55 persone. Eppure due secoli dopo quella Costituzione è ancora lì, e regge un Paese di 300 milioni d’abitanti. Difficile che la costituente del partito democratico sappia fare meglio.

In realtà, con questi numeri, sarà già difficile farla funzionare. Intanto dove si riuniranno i 2.460 delegati, allo Stadio Olimpico di Roma? E come potrà mai garantirsi a ciascuno il diritto di parola? Se anche la costituente lavorasse 5 giorni a settimana per 8 ore di fila, come l’operaio di un’industria metallurgica, i delegati avrebbero a disposizione 10 minuti ogni 2 mesi per prendere il microfono. Evidentemente ci s’attende che i più disertino i lavori, oppure che rimangano buoni e zitti al proprio posto. Sicché la costituente democratica ha già in canna la sua prima invenzione: il costituente muto.

Sarà che in Italia la sinistra coltiva un talento speciale per i grandi numeri, dalle 281 pagine del programma di governo (record nazionale) ai 1.365 commi stipati in un articolo dell’ultima legge finanziaria (record del mondo). Sarà che noi italiani riusciamo a complicare pure le faccende facili, e infatti la semplificazione non passa mai di moda, è un traguardo che ogni legislatura rimanda alla legislatura successiva. Sarebbe un traguardo per lo stesso Partito democratico, vista la pletora di organi, di regolamenti, di procedure che già imbraca il pachiderma. Però del Partito democratico s’avverte un gran bisogno, non foss’altro che per rendere governabile il paese. E a sua volta quest’impropria assemblea costituente deve rendere governabile il partito: ne elegge il segretario, stila il manifesto, compone lo statuto. Se ci riuscirà nonostante la calca dei suoi 2.460 delegati, celebreremo l’ennesimo miracolo italiano.


“Il Pd polizza vita del governo basta con sospetti e polemiche”

agosto 30, 2007

(30 Ago 07)

Massimo Giannini

D’Alema: il modello elettorale tedesco va bene e lo si può anche rafforzare
Il ministro degli Esteri: “Veltroni sta facendo bene il suo lavoro, non c’è crisi della maggioranza”

“Basta con le polemiche e i sospetti. Qui non c’è nessuna trama segreta. Non sono in vista né cambi di maggioranza né elezioni anticipate. Veltroni sta facendo bene il suo lavoro e il Partito democratico è la vera polizza vita di questo governo, che a questo punto durerà fino alla fine della legislatura”. Reduce dalla sua solita vacanza in barca, Massimo D’Alema torna in campo per rassicurare Prodi, spronare Veltroni, rimproverare gli altri candidati leader del Pd, e rilanciare la sfida d’autunno, a partire dalla legge elettorale: “Il modello tedesco va bene – dice il ministro degli Esteri, raccogliendo un dubbio di Veltroni – e lo si può anche rafforzare introducendo l’obbligo di indicare le alleanze prima del voto, e non dopo”.

Ministro D’Alema, ci risiamo. A un mese e mezzo dalla costituente del Pd avete già ricominciato tutti a litigare come le comari di Windsor.
“Io ho preferito star fuori dalle polemiche. Mi dà fastidio il chiacchiericcio estivo, questo è il periodo in cui la politica dà il peggio di sé. Il caldo spinge i politici a dire cose improbabili, talvolta insensate. I giornali, in assenza di notizie, le enfatizzano. Tutto questo produce dibattiti sudaticci. Buona regola è starne fuori… “.

Ma ora qualcosa dovrà pur dirla. Il quadro d’insieme del paese non le sembra alquanto sconfortante?
“Il quadro d’insieme dimostra soprattutto una cosa: non c’è una maggioranza in crisi e un’opposizione che incalza. Quella era un’immagine propagandistica, che oggi dimostra in modo clamoroso la sua insussistenza. La verità è che c’è un paese in difficoltà, non solo la sua politica. L’ondata “anti”, molto cavalcata dai media e da parte della borghesia italiana, va mostrando la sua inconsistenza. Ma ci sono anche segnali di ripresa e volontà di rinascita. Sul piano politico, il Pd si conferma come la vera grande novità italiana, che riapre il dibattito sui nodi di fondo del nostro paese. Emerge con forza il grande valore di questo progetto, man mano che si avvicina il 14 ottobre. La costituente, rafforzata dalla discesa in campo di Veltroni, ha innescato reazioni a catena in tutto il sistema. La destra spinge verso un confronto sul suo rinnovamento, o addirittura sulla nascita di un nuovo partito. E anche la sinistra radicale si pone domande su possibili future aggregazioni”.

Ma questa campagna per la leadership non le sembra una rissa tra correnti, tipo vecchia Democrazia cristiana?
“Io auspico che di qui al 14 ottobre il confronto, anziché inasprirsi con cadute di tono e sospetti, ritrovi lo spessore di un progetto per il futuro del paese e per il destino del riformismo in Europa. C’è stata una esasperazione eccessiva del conflitto. Io capisco che i competitori che si confrontano con Walter abbiano un di più di aggressività, per cercare di conquistare il campo, magari anche per l’eccesso di zelo di qualche sostenitore… “.

Ce l’ha con Rosy Bindi?
“Non scendo nei dettagli. Mi limito a constatare che è preferibile concentrarsi più sui progetti futuri e meno sulle polemiche spicciole. A tutti i candidati, comunque, io ricordo che non stiamo facendo una campagna elettorale per le elezioni politiche. Eleggiamo il leader di un partito in cui saremo tutti insieme. Un partito che avrà certamente un carattere pluralistico. Io non apprezzo gli aspetti deteriori del correntismo, ma come tutti i partiti coalizionali del mondo anche il Partito democratico avrà una pluralità di protagonisti e di voci. Qui nessuno ha in mente il modello del vecchio Partito comunista italiano, con il centralismo democratico e tutto il resto, questo sia chiaro”.

Su quali temi di fondo si dovrebbe allora concentrare il dibattito, secondo lei?
“Intanto io vedo un fronte internazionale che ci sollecita riflessioni e risposte. In Europa c’è il riemergere degli Stati-nazione, e soprattutto torna forte la Francia, che in rapporto con la Gran Bretagna e la Germania rischia di costituire una sorta di direttorio europeo… “.

Magari questa è colpa della sua politica estera?
“No, al contrario. Dal Libano in poi, l’Italia è tornata ad essere protagonista su molti scenari. Semmai il problema è un altro: qui si riflette la debolezza oggettiva del paese e la fragile coesione nazionale persino sulle grandi scelte di politica estera. Dal Medio Oriente ai Balcani, il Partito democratico deve dare un suo contributo. Poi c’è l’allargamento del campo riformista europeo. Qui il tema non è cercare i nostri amici in giro per l’Europa, ma come questo progetto italiano interferisce con il campo socialista, quello liberaldemocratico e quello ambientalista. Per noi non è importante avere il “club ulivista” in Europa, di questo i candidati al Pd devono tener conto. La via maestra resta la collocazione in un rinnovato fronte riformista, che si può reinventare solo coinvolgendo il campo del socialismo europeo”.

A parte l’Europa, non le sembrano più urgenti le tante emergenze italiane?
“Per sciogliere i nodi della crisi italiana urgono scelte coraggiose. La prima urgenza mi sembra la legge elettorale. Spero che il dibattito sia liberato da logiche strumentali. Non è vero che chi vuole il sistema tedesco vuole anche cambiare alleanze”.

Qualche sospetto c’è, visto che avete sostenuto per anni il modello francese.
“Vede, il tema vero è come dare più forza al sistema politico-istituzionale, liberandolo dal giogo dei ricatti e dei veti incrociati, e poi come dare più forza e più stabilità ai governi”.

Questo ormai lo sostengono tutti…
“Non sarei così sicuro. C’è una corrente forte della società e dell’economia italiana che, al di là delle chiacchiere sulla cultura liberale, vuole in realtà un politica debole e sotto ricatto, per manovrarla a proprio piacimento. Comunque, in campo ci sono due proposte ragionevoli. La prima è il sistema tedesco, la forza del cancellierato, i grandi partiti, la riduzione della frammentazione, le soglie di sbarramento. Volendo, nulla impedisce di rafforzarlo ancora di più con l’obbligo di apparentamenti preventivi e non successivi al voto politico. La seconda proposta è il modello francese, che vuol dire semi-presidenzialismo, doppio turno uninominale e maggioranze fortemente coese”.

E qual è il migliore?
“Stabiliamolo insieme. Ma quello che dobbiamo evitare, è di imbarcarci nei soliti pasticci, nei soliti compromessi all’italiana. Ci vuole coraggio. Che c’è di male se il Partito democratico diventa il motore di un rinnovamento del sistema politico che riduce la frammentazione e stabilizza una volta per tutte il bipolarismo?”.

Niente di male. Ma bisogna vedere se questo si traduce in cambi di maggioranza…
“La scelta delle alleanze non dipende dalla legge elettorale, ma dalla capacità di costruire un accordo politico e programmatico. Anche col sistema tedesco si può fare un accordo con Rifondazione comunista. Io non voglio ribaltare certo le alleanze. Ma questo paese deve essere governato. Il Pd ha giustamente questa vocazione maggioritaria. A questo punto anche la sinistra radicale deve vivere il Pd come una sfida, e spero che Rifondazione si dimostri all’altezza. La cosa riguarda loro, e non c’entrano niente le presunte “intenzioni malevole” di Rutelli, Veltroni o altri”.

Lei non vede rischi di nuova instabilità per il governo?
“No. Come avevo previsto, si viene chiarendo che la costituente del Pd è fattore di stabilizzazione del governo, e non certo il suo contrario. Il resto sono alchimie da retrobottega”.

Quindi durerete fino a fine legislatura?
“Direi proprio di sì. Ma per questo dobbiamo concentrarci sul prosieguo della legislatura, che è lunga. Dopo aver affrontato con successo l’emergenze ereditate, ora dobbiamo superare l’angoscia del momento: non si procede pensando che tra un mese il governo va a casa perché c’è una crisi. Serve un pensiero lungo, non la nevrosi dei prossimi quindici giorni”.

D’accordo. Ma ora che deve fare il governo, di qui alla fine della legislatura?
“Prima di tutto, dobbiamo impostare riduzioni fiscali a vantaggio del lavoro e della competitività. Ma per farlo dobbiamo portare avanti anche la lotta all’evasione fiscale. Ed è mortificante per il paese che, mentre noi diciamo questo, la destra discute invece su come organizzare l’eversione”.

E le richieste di Confindustria? E Montezemolo, che continua a parlare di fisco come emergenza nazionale?
“Lo scambio proposto da Confindustria mi pare ragionevole: meno incentivi, meno fisco. Poi c’è la questione della semplificazione dei processi decisionali. E su questo Montezemolo ha perfettamente ragione: la capacità di decisione del sistema politico è intollerabilmente farraginosa, troppo imperniata intorno al processo legislativo. Qui siamo al paradosso che dobbiamo fare una legge anche per far cominciare l’anno scolastico. Insomma, quello che io chiedo al Pd e ai suoi leader è di tornare ad un dibattito sulle grandi questioni di fondo “.

Eppure Rifondazione comunista resta in allerta. Davvero non c’è un progetto per sostituirli con l’Udc?
“Senta, ho il cattivo vizio di considerare i numeri, innanzitutto. Con l’Udc e senza Rifondazione comunista non c’è un cambio di maggioranza, semplicemente non c’è più maggioranza. E poi vorrei ricordare che noi governiamo con un vincolo sottoscritto con gli elettori. Persino più forte di quello che avevamo in passato. Poi che dalla crisi del centrodestra possa venir fuori dal centrodestra una forza moderata che guarda al campo politico in modo più libero, questo è un altro discorso. Ma non c’entra niente con operazioni fatte alle spalle degli elettori”.

Perché Veltroni ha sentito il bisogno di dire che non andrà a Palazzo Chigi senza il sigillo di un voto popolare? Perché è dovuto andare da Prodi a rassicurarlo?
“Veltroni ha pronunciato parole estremamente giuste e sensate. Il suo discorso sgombra il campo dalle interpretazioni che legano il Partito democratico a operazioni di caduta del governo”.

Ma non tutti gli hanno creduto. Guardi Parisi… Non è che avete in mente un altro ribaltone tipo 1998?
“Il 1998 fu tutta un’altra storia. Intanto non facemmo certo noi cadere il governo ma fu Bertinotti. E poi allora non si potevano fare le elezioni anticipate, anche perché eravamo alla vigilia della guerra in Kosovo. Le parole di Veltroni non significano poi che se cade il governo non se ne possa fare un altro. E comunque io insisto: in questo momento il contributo forte del Pd è alla stabilità del governo. Questo mi sembra l’aspetto più importante che anche le frasi di Walter hanno confermato”.

A un passo dalla costituente di ottobre, non resta alta l’impressione di una costruzione verticistica?
“E’ un rischio dal quale ci si deve guardare. Il Pd deve rinnovare la classe dirigente, ma non è una palingenesi, né un’occasione per fare piazza pulita della politica italiana. Non si tratta di spazzare via qualcosa, ma di costruire un nuovo soggetto, a partire da quella generazione di trentenni e quarantenni che hanno voluto il partito democratico e che in gran parte del Paese sono già protagonisti della vita politica. Avranno il diritto di costruirlo, il nuovo partito, o si devono far da parte perché lo dice un anziano professore che crede di parlare a nome della società civile?”.

Finora secondo lei Veltroni ha lavorato bene come prossimo leader del Partito democratico?
“Ero e sono sempre più convinto che Walter fosse la personalità che meglio era in grado di fare innovazione senza invenzione. Di rinnovare il nostro sistema politico senza snaturarci e sradicarci dalle nostre tradizioni culturali. E’ una sfida anche per lui. Deve fare la sua partita politica, e a me pare che la stia giocando molto bene”.


I Prodiani e Veltroni. La forza del pregiudizio

agosto 29, 2007

(29 Ago 07)

Massimo Franco
Con un paradosso, si può dire che ha rassicurato Romano Prodi, ma non i prodiani. Il sarcasmo riservato da questi ultimi a Walter Veltroni conferma un pregiudizio radicato verso il candidato-principe alla segreteria del Partito democratico. La diffidenza ulivista contro i partiti che lo hanno lanciato sembra tuttora superiore alla fiducia in Veltroni e nelle sue rassicurazioni. Il premier, tuttavia, dopo averlo incontrato ieri, ha detto che il colloquio è andato «benissimo» .

Lo stesso premier ha incaricato il ministro Santagata di stemperare le polemiche. Per ora, il destino del sindaco diessino di Roma rimane quello di parafulmine delle tensioni fra Prodi e Margherita. Nell’intervista al
Corriere ha escluso di andare a Palazzo Chigi prima del voto; ma pare che non basti.

Veltroni sa che il presidente del Consiglio diffida del modo in cui Ds e Margherita lo hanno indicato come prossimo leader del centrosinistra. E sa anche che l’incubo dominante nella cerchia prodiana è quello di un «nuovo 1998»: una crisi di governo e la sostituzione del Professore, senza andare immediatamente alle urne. Il fatto che il sindaco capitolino abbia precisato che non si presterà mai ad una simile operazione, ha prodotto uno strano effetto. Da una parte, ha tolto un alibi a chi si ostina a considerarlo l’uomo chiamato ad archiviare quanto prima Prodi. Ma dall’altra non ha potuto esorcizzare l’impressione che altri fantasmi stiano svolazzando intorno a Palazzo Chigi.

Pesano l’investitura data a Veltroni dal presidente del Senato, Franco Marini, e dal vicepremier diessino Massimo D’Alema, additati come «congiurati» per antonomasia nella crisi di nove anni fa; e la sua silhouette oggettiva di leader senza concorrenti. L’ironia del ministro Arturo Parisi sulle «candidature ufficiali e sottufficiali » e le allusioni pesanti di Franco Monaco ad un Veltroni o complice o prigioniero, non promettono tregue, anzi. A ben guardare, il tema centrale rimane quello del rapporto fra il Pd e il governo nato dal voto di un anno e mezzo fa. A dividere è l’analisi agli antipodi su meriti e demeriti del premier.

Leggendo Europa, quotidiano della Margherita ed esegeta ruvido delle tesi di Marini e di Francesco Rutelli, Veltroni è la risposta alle difficoltà governative, non la loro causa. La «discontinuità » che il sindaco è chiamato a marcare nascerebbe dall’inadeguatezza della coalizione prodiana; e dall’esigenza di chiudere il «bipolarismo coatto dell’era Prodi-Berlusconi ». È lo schema che fa insorgere il premier ed i suoi sostenitori; e che alimenta i sospetti di una resa dei conti già programmata subito dopo la nascita del Pd, a metà ottobre. L’offensiva ulivista contro Veltroni, e le bordate di Rosy Bindi ed Enrico Letta, suoi concorrenti, sono anche figlie di questa tensione. È un tentativo di tenerlo sotto pressione; e di fargli assumere un ruolo di mediazione e quasi di argine fra Palazzo Chigi e chi è sospettato di preparare il «golpe» autunnale.

L’obiettivo è di far saltare lo schema di una «discontinuità» inesorabile e inevitabile per salvare la coalizione; e di rinviare il più possibile l’uscita di scena di Prodi. Ma Veltroni ripete di avere bisogno di tempo per consolidarsi, e dunque di essere il primo sostenitore del governo. E dal modo in cui il presidente del Consiglio si è mosso nell’ultimo mese, la sua sopravvivenza politica non sembra ancora agli sgoccioli. La prospettiva di restituire il Paese al centrodestra berlusconiano di qui a sette mesi è un formidabile argomento per frenare la voglia di voltare pagina. Ma il futuro di Prodi dipende più dal suo governo e dalla capacità di risalire la china dell’impopolarità, che dall’appoggio di Veltroni.


Pd, il documento di Rutelli

agosto 28, 2007

(13 Lug 07)

Il Partito Democratico deve aiutare il Governo a cambiare rotta e a rivolgere un messaggio chiaro al Paese. Dopo il primo anno, i risultati positivi vengono incrinati da un rapporto via via più difficile con l’opinione pubblica. E’ finita la lunga stagione in cui la coesione del centrosinistra è stata garantita dall’antagonismo verso Berlusconi.

Non è possibile esaurire la missione di questa legislatura nel risanamento economico. Già l’esperienza del 1996-2001 ha insegnato che non appena è stato raggiunto l’ambizioso traguardo dell’Euro la crisi politica è stata immediata. Occorre indicare con nettezza agli italiani gli obiettivi e comunicarli in modo preciso, chiaro, bene organizzato.

Le difficoltà non vanno sottovalutate, ma esplicitate, per essere risolte. C’è delusione tra i ceti popolari: non si colgono ancora i benefici per chi ha un reddito fisso; le conseguenze dei tagli degli anni passati incidono sui servizi. Si sta radicando un’insofferenza nei ceti medi, tra piccoli imprenditori, commercianti, artigiani, professionisti; l’eccesso di adempimenti fiscali e amministrativi rende mal difendibile la sacrosanta azione contro l’evasione fiscale.

Un incessante e coraggioso processo riformatore è indispensabile per superare le difficoltà competitive dell’Italia e agganciare il mondo che corre. La missione di questi anni per l’Italia è il ritorno alla crescita: la capacità di far crescere l’economia, produrre più ricchezza e benessere, ridurre la pressione fiscale, creare più lavoro, migliore e meno precaria occupazione.

Crescita però è una parola che va declinata in modo comprensibile ed efficace: bisogna mostrarne i benefici per i cittadini e soprattutto dare una spinta di ottimismo e fiducia.

La nascita del Partito democratico rappresenta in sé una svolta. È una decisione coraggiosa; è stato coraggioso il superamento di DS e Margherita per dare vita a un partito nuovo e aperto. Questo partito avrà l’ambizione di costruire alleanze europee ed internazionali innovative. Avrà un impianto pluralista e laico, per cui l’ispirazione religiosa e i valori ideali avranno libertà e forza, senza integralismi. Coraggioso e nuovo è l’appuntamento popolare del 14 ottobre. La candidatura di Walter Veltroni ha esordito con una chiara e positiva discontinuità.

Per battere i riflessi egoistici della destra, che parlano al ventre di molti italiani, ma soprattutto per scongiurare che nasca un “blocco sociale” potenzialmente maggioritario e a noi avverso – che già si vede in alcune aree più dinamiche del Paese e specialmente nel Nord – occorre che il PD sia molto più che un partito nuovo. Proporrà una forte ispirazione nazionale dei compiti dell’Italia. Incontrerà le vocazioni, i talenti, i problemi dei territori con un’organizzazione autonomistica e federale corrispondente alla nostra moderna visione delle istituzioni.

Il Partito Democratico deve produrre un sano shock politico e progettuale per il centro sinistra. La sua nascita deve accompagnarsi con il nuovo messaggio al Paese. Senza porre mano al programma generale di governo, che dovrà procedere con l’impegno di tutta la coalizione, indichiamo 7 programmi d’azione prioritari da mettere in campo per i prossimi 4 anni:

L’ambiente
, in primo luogo, terreno del nuovo umanesimo del XXI Secolo. No al localismo esasperato e alle ideologie della crescita zero; sì a far respirare la natura e le città, migliorare la vita delle persone, dare all’Italia e all’Europa una leadership nella difesa del clima e della terra.

Modernizzare l’Italia è non solo indispensabile ma può essere popolare. Tutela del paesaggio, buona progettazione, tecnologie moderne debbono sposare un programma, con tappe precise entro la fine della legislatura, di costruzione di infrastrutture per la mobilità bloccata, termovalorizzatori ed impianti energetici avanzati.
       
Coesione sociale è futuro
. Nell’oggi, tutelare il potere d’acquisto di stipendi e pensioni; migliorare i servizi per le persone. Per l’Italia di domani: i nostri figli sono un bene pubblico; è urgente uscire dall’inverno demografico. Il welfare sia amico delle famiglie con più occupazione femminile, più equità tra le generazioni, una vecchiaia più attiva e sostegni ai non autosufficienti.

Etica pubblica della responsabilità. Oggi in Italia chi delinque è premiato. Le vittime non sono risarcite e di fatto vengono punite più degli autori dei delitti, che godono troppo spesso i benefici del crimine subendo sanzioni irrilevanti. Qui sta la radice dell’insicurezza: senza certezza dei diritti e delle pene non c’è Repubblica.

Per le imprese
, una burocrazia più snella, subito. Una regolazione liberale e liberalizzazioni in economia, con totale separazione tra politica e affari. Ma, molto di più: il messaggio che siamo dalla parte di chi crea ricchezza, di chi ama fare. Siamo dalla parte di chi innova, ricerca, rischia, crea l’eccellenza della qualità italiana.

Potere alla creatività dei giovani
, che hanno diritto a un ascensore sociale, che torni a far salire talenti, merito, lavoro. Grazie al sapere, alle tecnologie, alla garanzia di accesso alla rete. Con la cultura, espressione del patrimonio e dell’identità della patria e protagonista dello sviluppo del XXI Secolo.

L’Italia nel mondo
sa da che parte stare: costruisce pace, diritto, diritti umani, sicurezza, contrastando il fondamentalismo terrorista con la forza necessaria. In Europa promuoverà politiche comuni – ambiente, energia, immigrazione, difesa – con i paesi che vogliono cooperare senza restare schiavi dell’unanimismo né dell’antieuropeismo. Sarà dinamica nella politica di solidarietà con l’Africa, in una visione di comune destino.

La maggioranza che ha vinto le elezioni deve governare i cambiamenti. Sappiamo che potrà essere confermata solo se soddisferà le attese degli elettori.
Altrimenti, il Partito Democratico dovrà proporre una alleanza di centrosinistra di nuovo conio. Per non riconsegnare l’Italia alle destre, ma soprattutto per non essere imprigionato dal minoritarismo e dal conservatorismo di sinistra, né dalla paralisi delle decisioni.

Noi firmatari sosteniamo Walter Veltroni che a queste ragioni si ispira e che può dare loro forza e consenso.


Veltroni, indizi di novità

agosto 28, 2007

(28 Ago 07)

Andrea Romano
Nell’Anno del Signore 2007 Walter Veltroni scopre che la sinistra non ha niente da temere da chi produce ricchezza e che il sindacato dovrebbe guardare ai giovani precari senza diritti ben prima che ai già garantiti. Altri lo hanno detto quindici anni prima, non solo il solito Blair ma anche tutta quella schiera di progressisti che tra Europa e Stati Uniti hanno saputo coniugare crescita economica e redistribuzione sociale. Ma va bene lo stesso, meglio tardi che mai. Tanto più se le parole del leader in pectore del Pd segneranno il passaggio dalle formule ai contenuti, dalle raccomandazioni paternalistiche sulle quali si è finora intrattenuto (vogliamoci bene, andate piano, non facciamoci del male, etc.) all’enunciazione di qualcosa che somigli ad una linea politica riconoscibile.

Ancor meglio sarà se queste tardive scoperte ci aiuteranno a capire cosa intenda Veltroni quando si riferisce ad un partito democratico a vocazione maggioritaria e dunque autosufficiente, capace di mettere in discussione l’alleanza obbligata con la sinistra radicale. Perché ad oggi la discussione sul «centrosinistra di nuovo conio», inaugurata da Francesco Rutelli e dai suoi Coraggiosi, ha avuto un forte sapore politicista. Si è lasciato intendere che l’apporto dell’estrema sinistra alla coalizione di governo aveva una data di scadenza, superata la quale il futuro Pd avrebbe conquistato la piena libertà di sostituire ad esempio Rifondazione con l’Udc.

Ma fin qui siamo rimasti nelle ipotesi di accademia, o meglio nella tradizione italiana di un trasformismo dove tutto cambia nelle formule di coalizione senza che niente cambi nell’offerta politica proposta agli elettori. Questo mentre Romano Prodi tira faticosamente la carretta di un esecutivo dove riformisti e massimalisti continuano a convivere, rumoreggiando e sgomitando ma comunque continuando passo dopo passo il cammino di governo. E allora non è parso del tutto privo di fondamento il sospetto che dietro il disegno di quegli scenari vi fosse soprattutto l’intenzione di indebolire Palazzo Chigi, tanto più che Rutelli si è ben guardato dallo scendere in campo in prima persona per la guida del partito democratico.

La differenza tra trasformismo e innovazione politica non è poca cosa. Passa per la piena assunzione di responsabilità, anche personale, e per la capacità di condurre autentiche battaglie culturali dentro il proprio campo. Al di là delle mutevoli alchimie di coalizione, si tratta di battersi per le proprie convinzioni oltre le convenienze del momento.

Così come si tratta di guardare all’interesse vero della propria parte politica al di là delle rendite di posizione, cercando nel Paese il consenso necessario a superare gli steccati dell’identità. Veltroni è stato uomo di molte convenienze e di altrettante convinzioni, queste ultime spesso in conflitto l’una con l’altra nelle tante stagioni che ha attraversato. Ma le sue parole sulla produzione di ricchezza e sulla cecità del sindacato, ancorché in ritardo di quasi vent’anni, possono essere l’indizio di una novità vera. Incalzato dalla pressione di candidati brillanti e combattivi, che non si accontentano del ruolo di gregari, egli ha finalmente detto qualcosa di sinistra. Di quella sinistra che negli ultimi decenni ha governato le economie avanzate dell’Occidente, riuscendo a rendere ragionevolmente più floride e più giuste le proprie nazioni.

Un indizio è ancora un indizio e da oggi starà a Veltroni evitare di ricadere nella sua antica e brillante enunciazione del tutto e del contrario di tutto, magari informandoci la prossima settimana che il capitalismo è alla radice dei mali del mondo e che il sindacato va benissimo così com’è. «Non è ancora il momento di farsi il solletico a vicenda», come più o meno diceva Harvey Keitel in Pulp Fiction, ma intanto godiamoci lo spettacolo di un aspirante leader che prova a innovare i veri contenuti della sua proposta politica.


La politica frattale

agosto 19, 2007

(19 Ago 07)

Luca Ricolfi
Prendete un fiocco di neve e guardatelo al microscopio: vedrete un’elegante figura geometrica, con un perimetro aguzzo e frastagliato. Fate uno zoom e ingrandite un particolare del perimetro: sorpresa, rivedete lo stesso tipo di perimetro, aguzzo e frastagliato. E così via, zoom dopo zoom. Qualcosa di analogo succede dall’aereo, se provate a guardare le coste di un’isola frastagliatissima come la Gran Bretagna: il profilo di un tratto di costa di mille chilometri somiglia a ogni sua singola porzione di cento.

E quest’ultima a ogni singola porzione di dieci. I matematici, fortunati loro, hanno le parole per descrivere questa strana proprietà di annidamento, per cui il tutto è contenuto in ogni sua singola parte: parlano di figure autosimili e hanno inventato la geometria frattale per descriverle.

Gli studiosi di sociologia e di politica invece no, una parola non l’hanno. Che io sappia, non esiste un termine per dire che un certo oggetto sociale è autosimile, ossia riproduce sempre se stesso a qualsiasi livello lo si scomponga. È strano, perché un oggetto di questo tipo invece esiste ed è sotto gli occhi di tutti: la sinistra italiana.

Guardiamola prima dall’alto, sotto forma di coalizione. L’Unione è un cartello elettorale, che riunisce tutte le forze di sinistra e che è stato messo insieme con alcuni strumenti peculiari: un manifesto volutamente ambiguo (le famose 281 pagine del programma), una procedura di investitura del leader di tipo bulgaro (il plebiscito delle primarie), un meccanismo di selezione dell’élite politica perfettamente oligarchico (le candidature decise a tavolino). Il risultato è che, una volta vinte le elezioni, ogni partito dell’alleanza interpreta il programma a modo suo, il presidente del Consiglio passa il suo tempo a mediare fra le diverse componenti, correnti e sottocorrenti (dette eufemisticamente «differenti sensibilità»), l’azione di governo – risultante di mille spinte e controspinte che si elidono a vicenda – è lenta e impacciata, per non dire altro.

A questo punto, una parte dell’alleanza, ossia il tandem Ds-Margherita, si decide finalmente a varare il Partito democratico, di cui si parla da 12 (dodici!) anni. Allora proviamo a guardare dentro questa «parte», nata per neutralizzare le tensioni e le ambiguità del «tutto» di cui è il nucleo fondamentale. E che cosa scopriamo? Un miracolo dell’ingegneria sociale! Il nuovo partito conserva, in scala ridotta, tutte le peculiarità della coalizione di cui fa parte. Il suo manifesto, proprio come quello dell’Unione, è pieno di idee interessanti, ma prive del mordente necessario per tradurle in politiche economiche e sociali precise. Il leader del nuovo partito, Walter Veltroni, è stato scelto a tavolino dai leader dei due partiti promessi sposi, proprio come era successo per la scelta di quello dell’Unione: due anni fa si mise su il carrozzone delle primarie solo per confermare con un plebiscito una scelta già fatta dai capi (Prodi non aveva veri avversari), oggi si ripercorre la stessa identica strada con nuove primarie a esito scontato (Veltroni non ha veri avversari).

In barba ai bei discorsi sulle lobby e sul corporativismo, il terrore di una competizione vera è così forte che, anche dentro il nuovo partito, nelle menti dei capi Ds è scattato – implacabile – il riflesso pavloviano del centralismo democratico: D’Alema e Fassino non solo si sono autoaffondati come possibili candidati (perché altrimenti la vittoria di Veltroni non sarebbe stata certa al 100%), ma hanno costretto – pardon, «persuaso» – il povero Bersani a rinunciare anche lui, per evitare che un candidato Ds potesse disturbare in qualche modo il vincitore designato. Per non parlare dello spettacolo delle liste a sostegno dei vari candidati, ossia di Veltroni e degli altri due candidati di disturbo (Rosy Bindi ed Enrico Letta): mentre il bilancino dei posti in lista funziona già a tutto regime, gli sventurati elettori di sinistra non riescono a capire che cosa di veramente diverso farebbero i tre candidati, ma già sanno che ognuno «interpreterà» a proprio modo i principi esposti nel manifesto del nuovo partito.

Facendo lo zoom dello zoom, resterebbe Veltroni, ma anche qui la legge della politica frattale colpisce ancora. Il Pd riproduce le ambiguità dell’Unione di cui fa parte e il futuro leader del Pd quelle del partito di cui sarà leader. Forse Veltroni vorrebbe essere (o almeno sembrare) diverso da Prodi, ma nulla suggerisce che lo sia davvero. L’unico tratto che farebbe di Veltroni un leader diverso da quelli che finora hanno guidato la sinistra sarebbe che parlasse chiaro, scegliendo fra le politiche che la sinistra del futuro ha di fronte a sé.

Invece anche Veltroni ha paura. Non vuole scontentare nessuno, e quindi dice e non dice, accenna e corregge, fa un passo avanti e uno indietro. A Torino, nel discorso d’investitura, dice che anche il centro-destra ha fatto qualcosa di ragionevole (grande novità verbale, dopo anni di insulti), ma poi si guarda bene dal fare esempi veri: non cita, che so io, la legge Biagi, o la riforma delle pensioni, ma due provvedimenti politicamente marginali come la patente a punti (che peraltro non ha funzionato) e la legge sul risparmio (troppo tecnica perché un cittadino normale possa avere un’opinione in merito). Nella campagna referendaria, tuba con il Comitato promotore ma non trova neppure il coraggio di firmare, con l’incredibile argomento secondo cui le diverse opinioni presenti nel centro-sinistra renderebbero «inopportuna» una sua scelta netta. Ovviamente l’elettore normale si chiede: se non sa fare un gesto semplice e chiaro neppure quando è ancora solo candidato per la segreteria di un partito, che cosa potrà mai fare quando diventerà segretario? E quando diventasse presidente del Consiglio?

Per non parlare dello spinoso nodo delle alleanze. La vera, fondamentale, domanda che l’elettorato di sinistra si pone per il futuro è semplice e chiara: alle prossime elezioni il centro-sinistra si presenterà con o senza la sinistra estrema? Una risposta chiara a questa domanda basterebbe a rendere molto più prevedibili le politiche che da un futuro governo di sinistra potremmo aspettarci. Ma che cosa fa il buon Veltroni? Sembra accettare una lista di sostegno promossa da Rutelli, che in un breve documento prospetta senza troppi giri di parole la possibilità di «alleanze di nuovo conio» (ossia senza sinistra estrema). Nello stesso tempo si presenta in tandem con Franceschini che, a sua volta, dichiara senza mezzi termini che il Pd dovrà tenere unita la sinistra. Io traduco: «governare ancora con la sinistra estrema», con tutto quel che ne segue in termini di litigiosità e paralisi dell’azione.

Ho capito male? Forse, ma la geometria dei frattali mi dice che potrei aver capito benissimo e che siamo alle solite: ogni più piccola parte del nuovo riflette inesorabilmente il vecchio tutto da cui proviene.


Primarie e spiriti animali

agosto 9, 2007

(9 Ago 07)

Lucia Annunziata
Quando c’è un pressante invito ad abbassare i toni (l’Unità), quando si esprimono seri impegni, in nome di San Paolo, a stimarsi reciprocamente (Enrico Letta), quando un influente intellettuale suggerisce di misurarsi sui contenuti (Alfredo Reichlin), quando insomma si ascoltano tanti inviti a una competizione civile, è perché questa competizione sta andando nel senso perfettamente opposto. Questa è la sorpresa delle primarie per la segreteria del Partito democratico. Iniziate come una sorta di talk show collettivo e vagabondo, hanno immediatamente rivelato un forte potenziale distruttivo.

Sottolineato, per altro, dal curioso contrappunto delle primarie americane: dagli Usa arriva la notizia che Hillary ha affondato il fascinoso Obama: chi l’avrebbe detto, anche solo pochi giorni fa? E in Italia l’avvertimento risuona come una sorta di «memento mori»: alle primarie si sa come si entra e non si sa come si esce.

Proprio perché «amichevoli», giocate cioè nello stesso campo, il conflitto può diventare infatti estremamente affilato: non ci sono grandi generalizzazioni sotto cui coprirsi (chi dei candidati non è antiberlusconi?) e il confine delle differenze è così sottile da dover essere reso il più marcato possibile. Ambigue per natura, dunque, strette come sono tra amicizia e inimicizia, il rischio primarie è che nessuno dei candidati ne esca bene.

Questo è poi il pericolo che i partecipanti alle primarie italiane sembrano annusare in queste ore. La competizione in poche settimane ha raggiunto la sua terza vita: iniziata con il plauso assoluto per un candidato unico, velocemente passata alla corsa multipla ma pur sempre giocosa, ora, nella prima settimana di agosto, dunque a ben nove settimane dal voto, odora già di polvere da sparo.

Di tutte le polemiche, forse la più significativa del nervosismo generale ha a che fare con lo scambio di accuse su chi è un oligarca: sono più «casta» un giovane e una donna, entrambi ministri, o un semplice sindaco ma con un forte apparato di consenso? Distinzione che all’apparenza sa un po’ di Concilio di Nicea, ma che in realtà affonda la lama in un aspetto importante della fisionomia del potere: è più forte chi ha molta rete (appoggi, consensi, amicizie, scambi, dunque soldi, operatività, gestione) o chi ha una poltrona, un titolo, insomma un Ministero? Per le moderne caratteristiche sociali conta senza dubbio di più la rete. Non è questa forse, peraltro, la base sia delle tecnologie che del terrorismo di Al Qaeda? Ma il Ministero rimane il modello della gestione sociale attuale. Dunque, chi ha il potere, chi è più potente? Si tratta di un nodo centrale della nostra società politica oggi e che le primarie hanno spinto subito al centro.

Il pericolo vero dello scontro viene, tuttavia, non tanto dal rapporto fra i candidati, ma dal rapporto fra tutti i membri del futuro Pd, in nome dei candidati. Quello che sta succedendo è sotto gli occhi di tutti: la presenza in gara di vari leader e la necessità di fare varie liste a loro collegate ha innescato un elemento non del tutto previsto. Le liste sul territorio che dovrebbero eleggere i rappresentanti all’Assemblea nazionale sono divenute nei fatti liste per l’egemonia nelle varie sezioni locali del futuro Pd. Come si vede dalle cronache, infatti, dietro i vari candidati si stanno costruendo alleanze che non seguono più le vecchie linee di partito, ma che prefigurano nuovi rapporti di forza dentro il partito da costruire. Quello che sta succedendo, insomma, in questi giorni – e che si accelererà nelle prossime settimane – è che si è riaperto il processo lasciato incompiuto dai due congressi contemporanei di questa primavera in cui si sciolsero i maggiori partiti, Ds e Margherita.

Che c’è di male, si dirà? Non doveva forse cominciare da qualche parte la lotta politica per definire la nuova organizzazione? Certamente, ed è infatti un bene che questo rimescolamento avvenga. Ma un partito implica anche una riduzione a una logica condivisa, comune. Il processo cui assistiamo avviene invece in maniera occasionale, leggermente caotica, di sicuro frammentata, tutto legato com’è a logiche locali, senza che nessun organismo filtri, organizzi e renda trasparente la competizione in corso. Una situazione perfetta, diciamolo, perché il nuovo partito nasca segnato dalle voracità degli spiriti animali.


Nel Pd parte un barlume di gara, e scatta subito l’allarme democratico

agosto 8, 2007

(8 Ago 07)

Letta cita san Paolo, Monaco preferisce Vincino. Appello dell’Unità per fermare “la guerra tra i candidati”

A seguire il fervente dibattito agostano tra i partecipanti alle primarie del Partito democratico, si direbbe che la competizione del 14 ottobre assomigli sempre di più a una partita di pallone tra amici. Nelle partite di pallone tra amici, infatti, c’è sempre qualcuno che esordisce dicendo: “Ragazzi, non facciamoci male”. Oppure: “Siamo qui per divertirci”. Simili espressioni del galateo da calcio amatoriale, naturalmente, non sono mancate nemmeno nel Pd. Da parte di Dario Franceschini prima e poi di gran parte dei più convinti sostenitori del ticket tra Walter Veltroni e il capogruppo dell’Ulivo alla Camera.
Chiunque abbia giocato a pallone almeno una domenica nella vita, però, sa bene che il primo a proferire simili perle di popolare saggezza, terminata la partita, finisce regolarmente a inseguire avversari e compagni di squadra fin dentro lo spogliatoio, per un rigore che non c’era o per un fallo che c’era. La stessa impressione fanno oggi le grida scandalizzate dei tanti, dai diessini ai popolari schierati con Veltroni, che dopo avere esortato i rivali a un confronto civile, sereno, “in positivo” e addirittura “senza criticare gli altri”, si dicono allibiti per l’inusitata violenza di Rosy Bindi o di Enrico Letta. Colpevoli di avere affermato, nientemeno, che attorno alla candidatura Veltroni si sarebbe strutturata un’operazione “verticistica”. E così ieri, a tutta pagina, l’Unità lancia l’allarme democratico: “Pd, alt alla guerra tra i candidati”; mentre sul Corriere della Sera il ministro Beppe Fioroni legge le agenzie e trasale: “Qui si è perso il senso del limite”. Proprio così. “Basta – ripete Fioroni – con Veltroni, e non solo con lui, si è oltrepassato ogni limite. Ci vuole rispetto… Cos’è questa voglia di demolire il prossimo?”. E su Repubblica, da parte sua, Goffredo Bettini ricorda malinconico quei “giganti della politica che ai tempi del Pci e della Dc hanno fatto la storia del nostro paese, che sapevano disciplinarsi in una squadra”. E ammonisce: “Indebolire Veltroni sarebbe un atto di autolesionismo”. Ma la replica dell’ulivista Franco Monaco, schierato con Rosy Bindi, non si fa attendere. “Non vorremmo dare ragione al vignettista Vincino – dichiara il deputato della Margherita – secondo il quale ‘Veltroni vola alto e il suo socio Bettini razzola in basso’, ma certo con Bettini non c’è verso di capirsi”. La partita, nonostante tutto, sembra dunque ancora capace di suscitare qualche emozione. Minaccia che l’Unità tenta di stroncare sul nascere, sintetizzando così in prima pagina il nuovo regolamento per le primarie appena varato dall’Ulivo: “La campagna elettorale deve essere leale e non è consentito colpire la dignità degli altri dirigenti”. E subito dopo, istituendo un nesso di causa-effetto piuttosto dubbio: “Dopo le polemiche degli ultimi giorni e gli attacchi di Letta e Bindi a Veltroni è stato varato il regolamento per le primarie che invita ad abbassare i toni”.

I buoni uniscono, i cattivi dividono
Le regole, va da sé, sembrano fatte apposta per affogare nella melassa ogni possibile competizione. “Non è ammessa la pubblicazione a pagamento di messaggi pubblicitari”; “i candidati nazionali non possono superare per la campagna elettorale i 250 mila euro, gli aspiranti segretari regionali i 50 mila, gli aspiranti componenti l’Assemblea costituente i 5 mila”; i dibattiti tra i candidati si potranno svolgere – chissà perché – solo a partire da venti giorni prima del voto. Ma a venti giorni o venti minuti dal voto che sia, sul possibile dibattito, la Stampa di ieri ha già smorzato prematuri entusiasmi: “Duello in tv? Veltroni teme la rissa”. Ragion per cui, spiega l’articolo, il candidato “è orientato a lasciar cadere la ‘provocazione’ di Rosy Bindi, che tre giorni fa aveva sfidato il sindaco di Roma a un pubblico dibattito”. Provocazione. Tanto valeva dirla tutta e chiamare le cose con il loro nome: affronto, insolenza, villania.
Enrico Letta e Rosy Bindi, però, conoscono bene quell’antico schema di gioco, che è forse il punto in cui meglio s’incontrano – o peggio, secondo i punti di vista – le culture comunista e democristiana: i buoni uniscono, i cattivi dividono. E così Letta cita san Paolo: “Gareggiate nello stimarvi a vicenda”. Mentre la Bindi, sul Giornale, spiega che la sua è una candidatura “per il Pd, non contro Veltroni”. E poi “io e Walter abbiamo iniziato questo cammino nel 1993, quando da direttore dell’Unità mi chiese un editoriale sul centrosinistra”. Dopodiché, ovviamente, giù botte: “Non ci sto a queste regole inique. Ds e Dl hanno già deciso tutto”. Del resto, è naturale che sia così: a inizio partita è sempre il favorito (o chi si sente tale) a invocare il fair play. Ma è il vincitore effettivo, e solo lui, che alla fine dell’incontro va a stringere la mano all’arbitro.


L’oligarca fa bene al partito

agosto 7, 2007

(7 Ago 07)

Andrea Romano
Signora mia, non ci sono più le oligarchie di una volta. Quelle orgogliose del proprio ruolo, capaci di menare fendenti politici senza pietà e di distribuire con accortezza il potere tra gli accoliti più fedeli. Ma anche quelle che toglievano il disturbo all’indomani della sconfitta, con qualche mugugno ma nella certezza che altri avrebbero preso il loro posto nella lotta. Perché i tanto deprecati partiti funzionavano e producevano a ciclo continuo classi dirigenti destinate a sostituire i caduti nelle prime file. Oggi invece basta davvero poco per venir accusato di essere uno spietato oligarca, senza altra forza che quella che emana dalle nomenclature.

Capita in questi giorni al solito Veltroni, che paga lo scotto di essere il favorito nella corsa alla leadership del Partito democratico. Ovvero quello più capace di organizzare truppe e salmerie in vista della grande conta del 14 ottobre: sotto le sue insegne si presenteranno i giovani guidati com’è ovvio dalla ministra per la gioventù, gli ecologisti coordinati dall’esponente rosso-verde, gli amministratori locali diretti da qualche ottimo sindaco. E d’altra parte, cosa dovrebbe fare quel povero leader predestinato? Rinunciare come un novello Celestino alla meticolosa organizzazione del consenso che gli è stata messa a disposizione?

Niente da fare, la prova di forza delle primarie misurerà spessore e solidità delle cordate di potere che i diversi aspiranti sapranno mettere insieme. E qualunque lamentela è destinata ad assumere i toni frustrati di chi sa di non poter essere altrettanto efficace. Quello che colpisce è semmai la veemenza con cui l’accusa di oligarchia viene brandita o respinta dai diretti interessati. Talvolta con effetti bizzarri, come quando Pierluigi Bersani vede pericoli di «verticismo» auspicando di «rimettere lo scettro in mano al popolo dei democratici». Quello stesso Bersani che solo un mese fa ha rifiutato di candidarsi, piegandosi all’ordine di scuderia Ds di produrre un candidato unico, con la singolare motivazione che altrimenti avrebbe finito per «disorientare» i militanti. Quei militanti così facili al turbamento ma ai quali oggi dovrebbe essere restituito lo scettro.

O come quando Goffredo Bettini convoca una conferenza stampa per spiegare che «Veltroni non accetterà alcuna pesantezza burocratica o spartitoria». Proprio lui, Bettini, che da anni governa saldamente il Lazio per interposta persona e all’insegna di un perfetto modello di spartizione del potere. Sia reso onore a Bettini e al suo «modello Roma», che ha permesso al centrosinistra di riconquistare quello che un tempo era un solido feudo sbardelliano e postfascista. Ma sarebbe un segno di stile che da quel pulpito si evitasse di fare la lezione sui meriti della sempre più mitologica «società civile» e sui guasti delle logiche spartitorie.

Viene da pensare che uno dei problemi del centrosinistra non sia tanto la malattia oligarchica, quanto l’assenza di una buona e sana oligarchia. Quella che vige nei normali partiti democratici, dove le élite si producono attraverso la battaglia delle idee e dove chi vince si insedia al potere senza complessi di colpa. Ma anche senza alcuna illusione sulla propria mortalità politica, sulla trasparenza del proprio mandato e sull’ineluttabile ricambio che verrà dopo la sconfitta. Non c’è bisogno di tornare a Vilfredo Pareto per ricordare che le organizzazioni politiche virtuose si distinguono per la circolazione delle classi dirigenti e per l’allargamento continuo delle loro basi di formazione. Ovvero per quei meccanismi di mobilità verticale che in Italia sono bloccati da quasi un ventennio, da quella grande crisi dei primi anni Novanta che ha inceppato una volta per tutte gli ingranaggi di formazione delle leadership di partito.

Nel frattempo il Paese è andato avanti, si è rinnovato in molti suoi settori ma non certo in politica. Perché non ha davvero tutti i torti Emanuele Macaluso, quando scrive nel suo abrasivo libretto Al capolinea che «in Europa i partiti continuano a chiamarsi socialisti e i gruppi dirigenti cambiano in conseguenza dei mutamenti delle politiche, mentre in Italia i gruppi dirigenti rimangono sempre quelli e sopravvivono al mutare della strategia».

Le primarie per il Pd possono essere l’ultima tappa di questa lunga stagione di finzione, il travaglio necessario per restituirci i benefici di quella buona e responsabile oligarchia che qualifica ovunque i grandi partiti democratici.


La formula algebrica del PD

agosto 2, 2007

(2 Ago 07)

Emanuele Macaluso
Edmondo Berselli, su “Repubblica”, ha scritto un pezzo per spiegare come e perché il Pd ha respinto gli “assalti corsari” di Pannella e Di Pietro. Le ragioni politiche, dice Berselli sono note: Pannella voleva fare solo ammuina. Eppure autorevoli esponenti del Pd (Chiamparino) avevano detto che l’apporto di Pannella era vitalizzante. Altri, pare lo stesso Prodi, avevano incoraggiato Di Pietro a correre perché l’ex pm è un democratico doc. E allora? Berselli che è persona intelligente, fine analista e conoscitore delle vicende politiche del Pd, nel suo pezzo non ci spiega perché i “due”, da sponde opposte, considerano il Pd la loro casa. La verità è che i leader Ds e Margherita non volevano apparire come cuochi di una cucina casalinga che ammannivano un minestrone freddo e insipido. Quando qualcuno, provocatoriamente o seriamente, ha detto: bene ci siamo, riscaldiamo e saliamo la minestra, si è tornati indietro.
Berselli usa una bella espressione: «quelle candidature estemporanee riportano il Pd alla fase “liquida”». Ma non sarebbe giusto, onesto e corretto dire la verità: il Pd non può essere altro che la somma algebrica di Ds + Margherita – qualcosa.
Non è poi una vergogna. È cosi?


Furio Colombo, rinuncia con polemica

luglio 31, 2007

(31 Lug 07)

Il ministro contesta la sua esclusione ma non farà ricorso
I radicali insistono: “Non ci fermiano, Pannella deve correre”
Di Pietro: “Temevano un vero concorrente”
Il senatore dell’Ulivo ha raccolto firme in mezza Italia ma via fax. Il comitato tecnico del Pd pretende gli originali in 48 ore. “Per me è impossibile. Non ho un partito dietro le spalle”

Il colpo di scena arriva poco dopo le sette di sera. Furio Colombo, senatore dell’Ulivo e uno degli otto candidati alle primarie del partito democratico, rinuncia alla competizione del 14 ottobre. Il motivo è molto tecnico. E lo annuncia lui stesso in una lettera che sarà pubblicata domani sull’Unità: il Comitato tecnico-scientifico del Pd ha contestato al senatore il fatto che molte firme da lui raccolte sono “in fotocopia” perchè “mi è stato impossibile, non avendo una struttura di partito alle spalle, andare in giro per l’Italia a raccogliere fisicamente le migliaia di firme”. L’unica cosa che il senatore ha potuto fare, in poco tempo, è stato appunto raccogliere i fax degli amici in giro per l’Italia che lo hanno supportato. Ma secondo le regole, quei fax potrebbero essere fotocopie e quindi irrecevibili. Nell’attesa che il Comitato tecnico-scientifico decidesse sul dà farsi, e impossibilitato a rintracciare “in 48 ore” gli originali in giro per un paese che sta per andare in ferie, Colombo ha tagliato la testa al toro. “Rinuncio” ha scritto.

Pratogonista della giornata è stata la rabbia degli esclusi. Di Marco Pannella e di Antonio Di Pietro che non potranno correre alle primarie del Partito democratico. Che avrebbero voluto ma che sono stati stoppati. “Volete correre per il nuovo partito? Sciogliete i vostri” si sono sentiti dire dal comitato che, regolamento alla mano, decide le candidature per la corsa alla segreteria della costituenda formazione politica.

E oggi l’ex pm attacca: “Il Pd ha perso un’ottima occasione per potersi qualificare tale. Un partito, per potersi definire davvero democratico deve essere aperto e pluralista altrimenti semplicemente non è”. 0 La motivazione con cui è stato escluso è semplicemente “un furbo espediente per non avere tra i piedi un concorrente vero e reale, un candidato che avrebbe rotto le uova nel paniere, che avrebbe potuto rimettere in discussione gli equilibri precostituiti”. Ma il ministro va anche oltre: “Con il tempo e a mente serena bisognerà riflettere sulle reali motivazioni di questo diniego (che, in realtà, sono molto gravi e per certi versi inconfessabili) e trarne le inevitabili conseguenze, anche sulla opportunità di restare o meno in una coalizione che di fatto ci respinge!”. Tra i motivi, l’ex pm non esclude “la posizione che ho assunto sulle intercettazioni” che hanno travolto il vertice dei Ds. Di Pietro ha detto che “Prodi si è molto rammaricato per l’esclusione dell’Italia dei valori dalla Costituente del Pd”.

Anche in casa radicale c’è fermento. L’esclusione di Marco Pannella non è stata ancora digerita e oggi, Emma Bonino, insiste: “Il problema, più che tecnico, è tutto politico”. Contesta le motivazioni, l’esponente radicale, parla di “arroccamento” di Ds e Margherita. E promette battaglia: “Questa decisione dimostra che si tratta della mera fusione di due oligarchie. Noi useremo le possibilità di ricorso, sperando che le nostre ragioni, che poi dovrebbero essere le loro, facciano breccia”.

Ricorso che, invece, Di Pietro non farà. Non nascondendo, però, le conseguenze politiche della sua esclusione: “Con il tempo – dice il leader dell’Italia dei valori – bisognerà riflettere sulle reali motivazioni di questo diniego e trarne le inevitabili conseguenze. Per ora una cosa è certa: chi non ci vuole non ci merita!”.

Tocca a Maurizio Migliavacca, uno dei coordinatori del comitato per il 14 ottobre, rispondere. Ed è un riaffermare dic ose già dette più volte. “Se dei leader nazionali vogliono partecipare alle primarie del 14 ottobre devono riconoscere le regole che valgono per tutti e impegnarsi concretamente per il superamento dei loro partiti”. Quindi, chi ha ancora un partito alle spalle, non può pensare di candidarsi alla guida di un altro.


Domande ad aspiranti leader Pd

luglio 27, 2007

(27 Lug 07)

Franco Bruni
Vogliono i candidati a capeggiare il Partito Democratico confrontarsi e differenziarsi al più presto, con un poco di chiarezza e concretezza, sulle linee che intendono seguire nel compito cui aspirano dopo le primarie?

Se non lo faranno è inutile che siano più di uno. Al Paese non serve una gara di simpatia. Prodi ha un problema di leadership, è vero: ma sarebbe sleale acutizzarglielo limitandosi a gareggiare in piacevolezza mediatica. La politica economica è un buon campo per esercitarsi in concretezza. Non si tratta di entrare nel dettaglio della situazione congiunturale, ma nemmeno di limitarsi a dichiarare grandi e astratti principi ideali. Occorre impegnarsi su criteri di decisione la cui applicazione coerente può essere ragionevolmente promessa nel medio-lungo termine, quando il nuovo partito ci sarà e opererà, e controllata dall’elettorato.

Può essere utile qualche esempio, cominciando dalla politica di bilancio. Ciascun aspirante leader potrebbe cercar di rispondere a domande del tipo: quale velocità di rientro del debito pubblico è opportuno perseguire nei prossimi dieci anni? Tale velocità implica un vincolo ai disavanzi delle amministrazioni centrali e locali che può essere rispettato con diversi livelli e qualità di entrate e uscite pubbliche. Come vanno modificati il livello e la qualità delle entrate e delle uscite? In quanti anni si può ridurre di dieci punti percentuali la loro incidenza sul Pil? È giusto semplificare e sfoltire la gamma dei tributi, le deduzioni, i sussidi e i trasferimenti, gli incentivi, in modo da non pretendere di usare la finanza pubblica per influenzare i dettagli della distribuzione del reddito, della spesa privata e della struttura produttiva? In che misura il carico fiscale va spostato dalle imprese alle persone, dalle imposte dirette alle indirette, dal risparmio al consumo, dal reddito al patrimonio? In che modo si possono ridefinire le priorità della spesa pubblica, prescindendo dall’inerzia dell’esistente, diffondendo misure periodiche oggettive della qualità, della quantità e del costo di tutti i servizi pubblici?

Fra i criteri su cui impegnarsi c’è poi senz’altro l’elenco delle numerose liberalizzazioni del quale l’economia del Paese ha urgente bisogno per realizzare i rapidi cambiamenti che sono imposti dallo scenario competitivo internazionale e per abbattere il costo delle rendite di posizione degli operatori e delle categorie che beneficiano di regolamentazioni protettive. È chiaro a tutti che liberalizzare non significa abbandonarsi a mercati sregolati ma migliorare le regole, rendendole più chiare, più facili da far rispettare, più neutrali e meno intrusive. È possibile fare uno scadenziario abbastanza preciso di tutte le «liberalizzazioni» da realizzare, in modo che ciascuno possa valutare nell’insieme i costi e i benefici che ne trarrà? Quali sono le priorità di ogni candidato in tale scadenziario?

Se si liberalizza il settore privato e si riforma la spesa pubblica occorre flessibilità nella struttura dei salari e dell’occupazione, privata e pubblica. Retribuzione del merito, differenziali salariali regionali, passaggio dalla difesa del posto di lavoro alla difesa del lavoratore, che dev’essere però disposto al cambiamento: come muoversi concretamente su queste strade? E’ possibile, in questo settore, presentarsi in Parlamento con proposte che non abbiano avuto il previo assenso di tutti i maggiori sindacati?

Se ogni candidato leader del Partito democratico è disponibile a rischiare di esser diverso dagli altri nel rispondere a domande di questo genere, non potrà fare a meno di indicare gli alleati ai quali intende proporre di condividere almeno in parte le sue risposte. Nessuna delle politiche economiche che possono rimediare davvero ai problemi del Paese si può realizzare con consensi risicati e precari. Indipendentemente dalle leggi elettorali che abbiamo e avremo, il singolo partito democratico non può fare a meno di una politica di alleanze e dialogo con le altre forze politiche. Anche su questo dev’esserci chiarezza da parte di chi partecipa alle primarie. Dobbiamo dare per scontato che tutti i candidati vogliono un partito che mirerà a tutti i costi, come sta facendo Prodi, a tenere unito tutto il polo di sinistra? Se così fosse sarà difficile che si impegnino su criteri di politica economica concreti e coerenti.

C’è poi la diversa questione delle «grandi alleanze» temporanee, che coinvolgano larga parte di entrambi gli attuali poli nella realizzazione di un programma limitato e urgente, adatto a riaprire poi il gioco bipolare con una base di regole condivise. Poiché una riforma elettorale meno selvaggia, nel contenuto e nel metodo, di quella fatta dalla precedente maggioranza richiede senz’altro ampie alleanze, la questione rimarrà comunque all’ordine del giorno nei prossimi tempi. Ma se ci si allea per fare una riforma elettorale dovrebbe essere forte la tentazione di mettere nell’agenda dell’alleanza anche alcuni punti urgenti e cruciali di politica economica, che si possano condividere e non si vogliano far dilaniare dalla scomposta competizione bipolare. Vogliono i candidati alle primarie del nuovo partito dirci con chiarezza il loro pensiero in proposito? Non si tratta di essere sleali con Prodi, ma leali con i loro potenziali elettori.


Enrico Letta si candida alle primarie del PD

luglio 25, 2007

Il filmato su YouTube


Candidature e referendum le sfide del Pd

luglio 22, 2007

(22 Lug 07)

Andrea Romano
E’ in questi ultimi giorni di luglio che il centrosinistra dovrà decidere come vestirsi in autunno. Perché la prossima settimana si definiranno i termini della partita politica destinata a riaprirsi già in settembre. Da una parte con la conclusione della raccolta di firme per il referendum elettorale, dall’altra con la formalizzazione della candidatura di Enrico Letta alla leadership del partito democratico.

Sono due eventi solo in apparenza separati, perché il loro intreccio spingerà la maggioranza a definire una volta per tutte la direzione da prendere per uscire dalle secche nelle quali si trova. Un’opportunità di chiarezza verrà innanzitutto dalla scelta di Letta, che contribuirà a fare delle primarie per la guida del Pd quella trasparente contesa tra opzioni politiche diverse di cui tutto il Paese – e non solo il centrosinistra – mostra di avere bisogno. Già oggi quello che doveva essere un mesto percorso di incoronazione plebiscitaria si è fatto più ricco e appassionante. La candidatura di Rosy Bindi, oltre che per la forza del popolarismo sociale di cui è testimone, attira consensi per la sua esplicita difesa dell’esperienza di governo incarnata da Romano Prodi: «il prodismo delle origini – come ha scritto Federico Geremicca sulla Stampa – ovvero l’ulivismo della prima ora col suo arredo politico ideale». Quanto sia ancora attraente per il più ampio elettorato italiano questa prospettiva è difficile dirlo, o forse è fin troppo facile per essere qui ricordato. Ma è anche questo tocco di ardita incoscienza che rende ammirevole la scelta della Bindi.

Con la discesa in campo di Letta il menu è destinato a farsi ancora più ricco. Perché solo allora si renderà chiara un’offerta politica esplicitamente diversa da quella rappresentata fino a oggi dal centrosinistra prodiano. Un’offerta capace di svincolarsi dall’abbraccio con la sinistra radicale sulla base di un’esplicita assunzione di responsabilità riformista. Lo ha spiegato meglio di altri Umberto Ranieri, esponente Ds deluso dall’incapacità del proprio partito di esprimere con Bersani una candidatura di segno riformatore. La principale potenzialità di Letta – ha detto Ranieri al Corriere della Sera – è nel «mettere sul tappeto punti programmatici espliciti e concreti di riforma, rischiando anche l’impopolarità, facendo i conti con i tabù conservatori che permangono ancora in certa sinistra».

D’altra parte, è quanto si può leggere nella biografia politica di Letta. Giovane senza essere giovanilista, il che non guasta per quello che si propone di essere un partito nuovo che dovrà dotarsi di una classe dirigente anch’essa finalmente nuova. Ma soprattutto esponente della migliore tradizione democristiana, che con Beniamino Andreatta ha saputo incrociare il riformismo popolare con quello di segno Pci e Psi senza mai smarrire l’aggancio all’orizzonte politico e ideale dell’Occidente. Se vogliamo, la candidatura di Letta renderà concreta la suggestione di un «centrosinistra di nuovo conio» che il manifesto di Rutelli si è limitato a indicare senza poi tradurla in una piattaforma alternativa a quella di Veltroni.

Già, Veltroni. Perché tra il ritorno al «prodismo delle origini» di Bindi e l’esplicita opzione riformista di Letta rimane l’autostrada centrista percorsa da Walter Veltroni. Il quale in questi giorni sta organizzando le proprie truppe, con la regia di Goffredo Bettini, secondo un monumentale schema che più che politico appare corporativo. Si prepara una «lista dei giovani», una «lista dei sindaci», una «lista degli intellettuali», chissà che di qui a poco non si diano rappresentanza veltroniana anche «gli operatori del turismo» e «i lavoratori manuali». Qualcuno le ha già definite «liste polacche», ricordando il ruolo svolto dal «partito dei contadini» nel vivacizzare una lontana stagione del socialismo reale.

La vera forza di Veltroni è tuttavia nella sua capacità di non scegliere tra i due corni del dilemma, tra il prodismo vecchia maniera e un centrosinistra di nuovo conio. Ma è qui che il referendum elettorale può intervenire a dirimere quel nodo in vece sua. Perché il traguardo delle 500 mila firme costringerà le forze politiche, già dai primi di settembre, a individuare una soluzione condivisa per evitare una consultazione popolare dagli effetti imprevedibili. La ricetta proposta da Piero Fassino, la convergenza con il Polo sul modello tedesco, priverebbe i piccoli partiti di quel potere di ricatto che ha contribuito ad impedire al centrosinistra di sciogliere il vincolo con Rifondazione. Ed è l’incrocio tra questa prospettiva e la pressione politica esercitata dalle candidature di Letta e Bindi che forse costringerà la candidatura di Veltroni a farsi meno solenne e più riconoscibile per le scelte che saprà fare.


Pd, irrompe Pannella: “Mi candido”

luglio 22, 2007

(22 Lug 07)

Il leader radicale: «Pronto a correre se la mia proposta verrà accettata»

Dopo Rosy Bindi e Furio Colombo, e in attesa che Enrico Letta sciolga gli ultimi dubbi, si fa avanti un nuovo, inaspettato concorrente per Walter Veltroni alla segreteria del nascente Partito democratico: Marco Pannella.

Il leader radicale irrompe sulla scena con una dichiarazione solo all’apparenza problematica. Annuncia infatti l’intenzione di proporre alla segreteria della Rosa nel Pugno, e comunque ai «soggetti politici radicali», l’idea di far scendere in campo, per le primarie del Pd del 14 ottobre, un loro candidato. Poi, sommessamente, suggerisce se stesso per il ruolo: «Per quanto mi riguarda – precisa infatti – sarei, in caso di accettazione di questa proposta, pienamente disposto a essere io quel candidato».

I precedenti non rendono molto probabile che i Radicali rigettino la proposta di Pannella, e neppure che alla fine gli venga preferito un altro. Non appare quindi una forzatura indicare in Marco Pannella il settimo candidato alle primarie del 14 ottobre. L’anziano leader radicale spiega la scelta con il fatto che è convinto «non solo dell’opportunità, ma della necessità, contro la patente involuzione del regime politico del nostro Paese, di proseguire nella strategia radicale di assicurare al nostro Paese un’alternativa pienamente liberale, pienamente laica, pienamente socialista e radicale».

Pannella diventa così uno dei protagonisti del dibattito che sta portando alla nascita del nuovo partito e alla scelta del suo leader. Un protagonista che sicuramente non darà tregua agli altri candidati, e che non si fermerà davanti all’obiezione che lui fa parte di un soggetto politico che, a differenza dei Ds e della Margherita, non si è sciolto per dar vita al Pd. Pannella ha inventato quarant’anni fa la doppia tessera, cioè la teoria che l’iscrizione al partito radicale non è incompatibile con la tessera di un altro partito. E alla fine potrebbe risultare meno deflagrante l’accettazione della candidatura alla sua esclusione.

Ricapitolando, finora sono sette le personalità che hanno annunciato di volersi candidare alle primarie. I più noti sono Walter Veltroni, Rosy Bindi e Furio Colombo. Poi tre outsider: Mario Adinolfi, Jacopo Gavazzoli Schettini e Lucio Cangini. Da oggi c’è anche Marco Pannella, e domani potrebbe aggiungersi il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Enrico Letta. La scheda per le primarie non potrà essere piccola.


Walter, i Ds e l’amarezza del ministro

luglio 10, 2007

(10 Lug 07)

Federico Geremicca
C’è una cosa di cui si può esser certi, conoscendo solo un po’ il carattere sanguigno del personaggio e ciò che pensa dei primi passi del nascente Partito democratico: e cioè, che quello che in queste ore sta davvero mandando fuori dai gangheri Pierluigi Bersani, è la pioggia di complimenti (provenienti soprattutto dalle file del suo partito, Fassino in testa) per la “saggezza” e il “senso di responsabilità” dimostrati con l’annuncio che non si candiderà alla guida del Pd in competizione con Walter Veltroni e con chi altro, magari, deciderà di provarci. Quelle dichiarazioni, quei complimenti gli hanno dato sommamente fastidio. E uno sopra tutti: quello di Piero Fassino.

E’ al leader diessino più che a chiunque altro, infatti, che Bersani rimprovera il mancato decollo di una candidatura mai nata davvero, nonostante appelli e incoraggiamenti dai settori più diversi della società civile. Ed è a lui, più in generale, che contesta di aver messo fin dall’inizio il treno del Pd su un binario sbagliato. E’ questa la ragione del malessere che si cela dietro le due frasi chiave della lettera aperta (inviata non a caso ai suoi sostenitori e non al suo partito o addirittura al segretario del suo partito) con la quale il ministro per lo Sviluppo economico ha annunciato che non sarà candidato alle primarie del prossimo 14 ottobre. Con la prima frase, relativa ad una sua possibile candidatura, spiega: «Per come si sono svolte le cose, quello che avrebbe potuto essere un arricchimento del nostro percorso rischierebbe di diventare un elemento di disorientamento». Con la seconda, indirizzata ai Ds, invece, accusa: «Io stesso ho pensato a come il nostro primo passo avrebbe potuto essere diverso e diversamente innovativo anche per la tradizione politica a cui appartengo». Con chi ce l’ha, e perché? Dicevamo Fassino. «Piero avrebbe potuto almeno attendere che Veltroni accettasse la candidatura, prima di imporre il suo altolà un po’ stalinista esplicitato con il famoso “se Veltroni sarà candidato tutti i Ds saranno con lui”…», spiegano dall’entourage di Pierluigi Bersani. Non solo. Perché se la sua prima dichiarazione non era stata sufficientemente chiara, il giorno antecedente il discorso di Veltroni al Lingotto – fanno notare dalle parti di Bersani – il segretario diessino si incaricò di chiarirla: «Io penso – disse infatti martedì 26 giugno – che personalità come Bersani e Letta possano concorrere, insieme a me e a tanti altri, a sostenere Veltroni…». Che senso avrebbe allora potuto avere – se non quello, appunto, di «disorientare» – una candidatura-Bersani in aperto contrasto con le indicazioni del segretario del suo partito? Alla fine, dunque, il ministro per lo Sviluppo economico s’è fermato. Due tre colloqui per aver conferma dell’inevitabilità della decisione ormai maturata e poi l’annuncio che non scenderà in pista: con quel micidiale «il nostro primo passo avrebbe potuto essere diversamente innovativo anche per la tradizione politica cui appartengo».

Invece, è questa la constatazione fatta da Bersani, ha prevalso il riflesso condizionato all’unità, l’appello a non dividere le forze, l’invito a serrare le file affinché il primo segretario del Pd sia – e per plebiscito – un uomo proveniente dalle file dei Ds. Il che, ovviamente, è importante anche per Bersani: ma non certo sufficiente. «Di questo, lui è realmente amareggiato», confida Nicola Latorre, dalemianissimo membro della segreteria diessina. «Ci ha spiegato: “Io ritengo di poter rappresentare esigenze che Walter non garantisce appieno e non capisco dov’è il reato, se decidessi di candidarmi. E’ un modo anche per allargare l’area del consenso al Pd… Invece Fassino ha già chiuso le porte annunciando che tutti i Ds sosterranno Veltroni, che è una cosa dell’altro mondo”…». E di fronte a qualche compagno di partito avrebbe aggiunto: «Allora ci vada lui in Veneto e Lombardia a spiegare a imprenditori e ceti produttivi che la scelta del sindaco di Roma è un segnale di attenzione verso il Nord…».

E’ evidente che la scelta di Bersani – e soprattutto l’animo che la sottende – rappresenta un’altra grana di non poco conto per Walter Veltroni. E non è l’unica emersa ieri. Anzi, a ben guardare, ancora più insidiosa è la polemica sviluppata da Arturo Parisi direttamente nei confronti del sindaco di Roma, reo di sostenere il referendum elettorale ma di non firmarlo con la motivazione che «sono candidato alla guida di un partito collocato in una maggioranza in cui ci sono opinioni diverse». La replica del ministro della Difesa, ulivista della prima ora, è al vetriolo: «Se candidato alla guida significa candidato a guidare, a scegliere, non riesco a capire perché Veltroni decida di farsi guidare invece che guidare… Il Veltroni che serve all’Italia è uno che espone la sua linea e su questa cerca il consenso, non un candidato che si propone fin dall’inizio come il candidato di tutti e di nessuno».

Il rilievo è pesante perché punta dritto al cuore delle due questioni che, a detta di alcuni, rappresenterebbero il vero tallone d’Achille di Walter Veltroni: la ricerca dell’unanimismo e, dunque, la predisposizione verso posizioni generiche – se non proprio ecumeniche – capaci di non scontentare nessuno. Un limite che potrebbe rivelarsi effettivamente pesante, se non superato, a fronte delle scelte da compiere da oggi ai prossimi mesi. Riuscirà Veltroni ad assumere il piglio «decisionista» indispensabile per riportare un minimo d’ordine nel centrosinistra? E poi: solleciterà effettivamente candidature alternative alla sua per le primarie di ottobre? A questa seconda domanda potrà forse rispondere la riunione che il «comitato dei 45» terrà domani per definire le ultime regole in materia di primarie e candidature. Per la prima, invece, occorrerà più tempo. Ammesso che Veltroni – per il possibile precipitare di alcuni fatti di governo – abbia il tempo necessario almeno per tentare l’indispensabile trasformazione.


Spaventa, il PD e il sogno d’estate

luglio 7, 2007

(5 Lug 07)

Emanuele Macaluso

Luigi Spaventa ha scritto ieri su “Repubblica” cose del tutto condivisibili sul conservatorismo di una certa sinistra che ha «impedito di occuparsi di temi che proprio essa dovrebbe far propri: le nuove povertà, la precarietà dei giovani ai quali si chiede solo di aspettare… per riscrivere un nuovo patto generazionale tra gli italiani». Osservazioni che i lettori hanno potuto trovare anche su questo giornale dal giorno in cui nacque. Il governo, invece, non ha scelto questa strada ed è impantanato all’interno della sua maggioranza (si fa per dire) che si richiama all’inutile librone elettorale dell’Unione. Spaventa elogia il discorso di Veltroni di Torino che si discosta, dice, radicalmente dal governo e dal manifesto del Pd. E conclude: «Veltroni chiede che il nuovo partito sia veramente nuovo per ispirazione politica e perciò diverso dai partiti che oggi concorrono a formarlo». Con Spaventa altri (come Peppino Caldarola) dicono che Veltroni farà «un’altra cosa» rispetto a ciò che sono oggi Ds e Margherita.

Che il Pd sarà un’altra cosa è un’ovvietà, che possa essere cosa sostanzialmente diversa dalla somma dei due partiti e dei loro «oligarchi» è un sogno di questa estate destinato a bruschi risvegli.


L’ecologia del fare

luglio 7, 2007

(7 Lug 07)

Walter Veltroni
Un tema e un valore universali, così come sconfiggere la povertà e il sottosviluppo. Questo è oggi la lotta ai mutamenti climatici, e il messaggio prezioso che arriva dalla maratona musicale di Live Earth è che tutti – la politica, le imprese, il mondo della cultura, i singoli cittadini – devono sentirsi chiamati in causa dall’impegno per fermare il «Global Warming».

Il clima che cambia non è più una possibilità per il futuro, una minaccia ipotetica. È una realtà. Il clima sta già cambiando e l’uomo già paga prezzi pesanti per le temperature che si alzano, i deserti che avanzano, le siccità e le alluvioni che si fanno più violente e più intense. Pagano, paghiamo tutti, ma più di tutti pagano anche in questo caso i più poveri: sono milioni, soprattutto in Africa, i «profughi del clima» senza più terra da coltivare, senza più raccolti di cui vivere.

Nella storia del nostro pianeta ovviamente non è la prima volta che si verificano profondi sconvolgimenti climatici, è successo, risuccederà. È la prima volta, invece, che cambiamenti così avvengono in presenza della nostra umanità evoluta, civilizzata ed è la prima volta che un simile rivolgimento climatico vede l’uomo come principale responsabile. Il clima cambia perché scarichiamo nell’atmosfera troppa anidride carbonica, dunque perché bruciamo troppo carbone e petrolio e tagliamo troppe foreste pluviali. L’uomo è la causa, l’uomo è la prima vittima del «Global Warming». Ma l’uomo, l’uomo moderno con la sua straordinaria capacità scientifica e tecnologica, l’uomo moderno illuminato da quello che Hans Jonas ha chiamato il «principio responsabilità», può anche essere la soluzione.

Per fermare i mutamenti climatici bisogna cambiare modo di produrre e di consumare energia: investendo sull’efficienza e sul risparmio, puntando sulle energie pulite e rinnovabili. Devono farlo tutti ma l’impegno maggiore tocca ai Paesi industrializzati, che contribuiscono per oltre il 50% alle emissioni che alterano il clima. La via è quella indicata dall’Unione Europea con i tre obiettivi «20%» che si è data per il 2020: meno 20% sulle emissioni di anidride carbonica, meno 20% sui consumi energetici, più 20% almeno di fonti rinnovabili.

L’Europa prima e più di altri ha capito che riformare i sistemi energetici è indispensabile per stabilizzare il clima, ma è anche una convenienza economica per se stessa – perché promuove l’innovazione tecnologica e la dematerializzazione dell’economia, frontiere obbligate per continuare a competere nel mondo globalizzato ed è un imperativo morale: verso le generazioni future, certo, e verso il Sud del mondo. Grandi Paesi come la Cina, l’India, il Brasile, l’Indonesia crescono economicamente a ritmi rapidissimi, e insieme al loro Pil galoppano anche i loro consumi di energia; lo stesso, è auspicabile, potrà fare presto l’Africa. Solo diversificando gli approvvigionamenti energetici rispetto all’attuale predominanza dei combustibili fossili, solo cooperando perché lo sviluppo dell’Asia, dell’America latina, dell’Africa segua sul piano energetico percorsi innovativi, sarà possibile al tempo stesso fermare la spirale dei cambiamenti climatici, difendere e accrescere il nostro benessere, costruire un mondo senza più miliardi di affamati e diseredati.

Per tutte le culture riformiste la lotta ai mutamenti climatici deve diventare una priorità e questa è una delle grandi ragioni per cui serve una politica nuova, capace di integrare nel suo pensiero bisogni, come appunto quelli legati alla sostenibilità, del tutto inediti. Ma l’urgenza di un grande patto globale contro il «Global Warming» impone di rinnovarsi anche all’ambientalismo. La cultura ecologista è molto più giovane delle altre grandi tradizioni riformiste, ma anch’essa è nata ben prima che i cambiamenti climatici diventassero un tema di così stringente attualità. Oggi l’ecologismo non può che essere uno dei principali orizzonti di riferimento di un credibile progetto di governo della società e in Italia della costruzione del Partito democratico: però un ecologismo del sì che si batta per «fare» anziché per «non fare». Un ecologismo che sostenga, anziché contrastare, l’energia eolica, l’alta velocità, i rigassificatori, tutte infrastrutture necessarie per ridurre i consumi di petrolio e carbone.

Davanti all’evidenza del clima che cambia, dei danni sociali ed economici che tale cambiamento comporta, se non viene fermato, sempre di più battersi contro il riscaldamento globale è un atto di buon senso e di buona volontà che deve accomunare tutti gli esseri umani e tutte le forze politiche. Ma per quanti si richiamano ai valori dell’equità, della solidarietà vi è un motivo ulteriore per innalzare questa sfida come una propria insegna: salvare la stabilità del clima per noi, per i nostri figli, per le generazioni che verranno è un’esigenza irrinunciabile per dare senso, nel XXI secolo, all’idea di progresso.