Archive for settembre, 2007

Le logiche del PD e Reichlin che vola alto

settembre 27, 2007

(28 Set 07)

Emanuele Macaluso
Lo storico Piero Craveri è stato uno dei garanti della Costituente del Pd a Napoli. Sul “Mattino” è apparso un suo articolo con questo incipit: «Il Pd a Napoli e in Campania sta crescendo come un brutta copia della Dc». Brutta copia della Dc di Gava e Pomicino, avete capito? Infatti lo storico napoletano fa proprio quei nomi e osserva che nel Pd «le logiche interne sono quelle della riserva indiana con tribù in lotta tra loro, rispetto a cui la logica politica è solo un paravento». Antonio Polito ha detto che i segretari regionali che verranno eletti nel Pd «rischiano di essere piccoli Quisling o dei Putin» e Craveri gli dice che non c’è bisogno di scomodare la Gestapo e il Kgb, dato che la Campania ha storicamente altri esempi, assai più collaudati, di clientelismo e malavita politica. Ma la Campania non è un eccezione rispetto ad altre regioni: nel Sud, al Centro e al Nord.
Luca Telese, dall’ufficio di Bettini, sul “Giornale” ha raccontato le ultime sistemazioni nelle liste veltroniane. C’è da rimpiangere Franco Evangelisti e le sue telefonate per Andreotti. Cronache da dedicare al mio amico e compagno Alfredo Reichlin che continua a volare alto, così alto da non accorgersi cosa succede in questa terra.

De Mita: «Io fuori? Una provocazione»

settembre 27, 2007

(27 Set 07)

Lioni. «Mi dispiace, dovrete fare ancora i conti con la mia presenza». Ciriaco De Mita sale sul palco del centro sociale di Lioni e con una battuta esorcizza la questione del mancato accoglimento delle liste nazionali di Campania Democratica mentre apre la campagna elettorale per le Primarie del Pd. Certo, quella ricusazione, per quanto «tecnicamente frutto dell’utilizzo di un meccanismo procedurale male interpretato», per lui è stata una «provocazione».

«Sì, non mi spiego – confida – tutto questo in un partito che nasce, che si fa, che è per aggregare e non ”contro” qualcuno. Logico che non ci sia entusiasmo, sarebbe strano se ci fosse, perchè è difficile suscitare entusiasmo se i giocatori della squadra si prendono a calci». Ed allora De Mita racconta che quasi stava disertando l’appuntamento di Lioni, al cospetto di centinaia di persone, accolto dalla padrona di casa Rosetta D’Amelio, diessina assessore regionale alle Politiche sociali.

«Certo – afferma De Mita – non c’è partecipazione rassegnata, ma nemmeno entusiasta. Dobbiamo crescere, dialogare, far capire». Il leader della Margherita, allora, ascolta con attenzione l’intervento di una ragazza ventenne, Luana Evangelista, della Sinistra Giovanile, che lo segue in lista, al numero due. «Proviamo insieme a saldare – le dice De Mita – tensione ideale dei giovani e sapienza».

Il leader di Nusco è animale elettorale, che si sente già dentro la competizione. «Da questo collegio – afferma – mi aspetto che la lista raccolga almeno 15mila consensi». E l’assessore regionale, D’Amelio, afferma che «il compito di tutti i candidati sarà quello della mobilitazione, del portare al voto gente che si convinca che con la partecipazione si può approdare ad un nuovo orizzonte politico». E se Sena avvisa sui «rischi verso il 14 ottobre di una deriva inquinante, di intrighi e infiltrazioni tesi a delegittimare», De Mita non resiste a qualche chiosa feroce. Verso Gad Lerner («ma ad Avellino, in un confronto con me, non aveva detto che mi avrebbe visto padre nobile del Pd? Sia chiaro, ho deciso io di non candidarmi quando mi sono accorto che potevo farlo»), Rosy Bindi («lei parla contro le oligarchie, ma chi l’ha messa al governo, forse lo Spirito Santo?») ed Enrico Letta («è sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, senza mai essersi impegnato in una campagna elettorale»).

E difende il candidato campano Tino Iannuzzi. Così: «Altro che candidato oscuro. È parlamentare attento, scrupoloso, preparato sulle vicende regionali. E lasciate che ve lo dica io, che alla Camera sono seduto accanto a lui. E vicino a De Luca».

«Voto leale, non arruoliamo giocatori di squadre avversarie»

settembre 25, 2007

(25 Set 07)

Gianni Colucci
«Basta conflitti, ma anche basta a chi pretende di dire dove sia il bene e dove il male. All’arroganza rispondiamo con la mobilitazione», Tino Iannuzzi – alla convention che ha aperto la sua campagna elettorale per l’elezione a segretario regionale del Pd, sceglie bene le parole ed evita i toni da crociata. Ma qualche colpo ben assestato a De Luca lo piazza. «Io nel gioco della gestione del potere sono sempre stato fuori. Le accuse ridicole sulle spartizioni non le accettiamo». E poi sgombera il campo anche dall’idea del municipalismo esasperato, cavallo di battaglia di De Luca: «E’ un’idea destinata ad un malinconico tramonto». Conclude con la sua biografia di salernitano «vero», un argomento inedito in assoluto da contrapporre al cantore della salernitanità: «Non vengo dall’anno zero, sono di questa città e le mie battaglie le ho fatte per tutti. Ho lavorato sul territorio e mi conoscete». E si toglie lo sfizio di rimbeccare anche il sindaco ”del fare”: «Il centro sociale di Matierno, 1,5 milioni sollecitati da me in Finanziaria: c’è il progetto ma non l’appalto, perchè non lo si fa?». E non può mancare la riflessione sull’appello alle destre. «Noi chiediamo il voto a chi rivendica di appartenere alla nostra cultura, non immaginiamo di alterare le regole del gioco portando in campo i giocatori con la maglietta della squadra avversaria. Chi agita queste armi si vede che ha paura, sa di non potersi confrontare con noi».

C’è spazio anche per il programma: «Vogliamo far dialogare il Mezzogiorno con il Paese e puntiamo a fare della Campania la capofila delle regioni meridionali che non chiedono assistenzialismo ma infrastrutture». E poi ricorda che l’impegno istituzionale sulle infrastrutture coincide con la sua idea di sviluppo complessivo, lontano dai municipalismi e basato su una filiera istituzionale che metta insieme le istituzioni regionali, comunali e territoriali a maggior ragione perchè governate tutte dal centrosinistra. Un’idea diametralmente opposta all’eterno conflitto che ha connotato i rapporti interistituzionali e finanche territoriali dell’era De Luca. «Penso a investimenti concentrati per filoni e grandi opere: la Avellino-Salerno e la Contursi-Lioni ad esempio». E concede al sindaco di Salerno solo il sostegno all’idea della provincializzazione della gestione dei rifiuti e la realizzazione di un termovalorizzatore per la città. Riconferma l’impegno per l’azienda ospedaliera e la facoltà di medicina e non rinuncia a dire che è stato lui a lavorare per aumentare i posti alla facoltà e per portare i fondi per la clinicizzazione dell’ospedale di San Leonardo: «Gli altri dov’erano?», chiede polemicamente.

Ma conclude conciliante: «Il futuro arriva il 15 ottobre. Per questa cosa tutta da edificare abbiamo bisogno della partecipazione di ognuno. Per questo i toni da guerra civile non mi piacciono». Mario De Biase sorride quando ancora lo chiamano sindaco. E non si sottrae alla richiesta di commenti su De Luca: «La censura di Veltroni non arriva? Bettini, il braccio destro di Veltroni, quel che c’era da dire le ha dette. Queste sono cose già viste. Non ricordate i manifesti? Quelli che dicevano ”grazie Mario?” quando era lui candidato? Ebbene anche quello era un modo per fare voti, senza tanti complimenti. Bisogna capire che stiamo facendo una cosa nuova, chi non lo capisce è superato dalla storia».

E tra i volti che si rintracciano nella grande sala dell’hotel sul mare ci sono anche inedite presenze come quella di Raffaele Ferraioli, consigliere comunale delegato alla sanità. Ma è l’ala sanitaria della Margherita a non far mancare il proprio sostegno: manager (in testa Bianchi), direttori sanitari (dal Vallo di Diano e dal Saprese soprattutto), l’ex sindaco di Nocera Montalbano. Infine, presenti anche se in parte divisi, i segretari dei sindacati: da una parte Ciotti e Tavella, all’altro capo della sala Riccardo Fiore. Infine i docenti universitari: Stanzione, Amendola, De Simone; il presidente della Sdoa, Paravia. E per le imprese il presidente del Cidec Mario Arciuolo e gli ex assessori di De Biase Mauro Scarlato e Ambrogio Ietto. Un «in bocca al lupo» via telegramma, infine, da Tommaso Biamonte.

«Il mio appello? A chi si è stufato di De Mita»

settembre 25, 2007

(25 Set 07)

Piera Carlomagno
Né corrette, né smentite, né ritirate. Spiegate sì, anche rafforzate si può dire. Il sindaco di Salerno Vincenzo De Luca, tranquillo come se non avesse scatenato la prima grande polemica nel nascente Pd, torna sulle parole pronunciate venerdì scorso in televisione e le sottolinea: «Non è stato un appello al centrodestra, ma a tutti i cittadini liberi, anche quelli che hanno votato il centrodestra».

Perché? Semplice: «Non stiamo qui a chiudere il partito a Ds e Margherita, altrimenti saremmo finiti». E rincara la dose: «Mi sembrerebbe un’idiozia, un’ipotesi non molto affascinante. In tal caso sarebbe meglio che chiudessimo bottega». Poi chiarisce: «Il Pd è un progetto che si rivolge a tutte le persone per bene, ai cittadini seri, a quelli che vogliono rinnovare la politica, a quelli che non ne possono più di Ciriaco De Mita. Mi sembra di farmi capire quando parlo».

Il punto è proprio questo: non soltanto l’appello al centrodestra, che di fronte alla nascita di un soggetto politico nuovo, ci potrebbe anche stare per alcuni (ma che ha comunque scatenato le reazioni della coordinatrice del comitato elettorale in Campania Teresa Armato e del segretario regionale dei Ds Enzo Amendola), ma l’attacco interno all’asse De Mita-Bassolino. Le parole di De Luca («alle primarie vadano a votare tutti… perché l’unico vero obiettivo è la liberazione dai notabilati sostenuti dall’asse di potere De Mita-Bassolino») sono suonate come la prima ammissione “di colpevolezza” agli anti-Pd di destra e di sinistra, che giurano su sicure divisioni e guerre fratricide prossime venture.

E, come se le primarie del 14 ottobre non fossero una maniera democratica per organizzare il nuovo partito, ecco serviti su un piatto d’argento i vecchi duelli De Luca-Bassolino e Villani-De Mita ereditati senza tassa di successione dagli altrettanto vecchi Ds e Margherita. E però, dopo aver esplicitato ancora meglio il concetto: «Costruiamo un Pd dai confini ampi per contribuire a superare i clientelismi che inquinano la politica campana», il sindaco De Luca alla domanda: ”Come commenta allora la nota della Armato a Veltroni?”, risponde con una battuta: «La Armato? Chi è la Armato?».

Per quanto (non) si sforzi, all’onorevole De Luca non riesce proprio di mostrarsi (almeno) politically correct, neanche in pieno “polverone”. Così ha definito la polemica il segretario Ds Alfredo D’Attorre, che da parte sua ha trovato normale che il confronto (leggi primarie) coinvolga anche gli elettori che non hanno votato Margherita o Ds, che a sua volta ha parlato di «assetti di gestione del potere del centrosinistra regionale» e che ancora una volta ha confermato che la linea ufficiale del partito (vecchio) non può discostarsi da quella di De Luca.

È evidente che il diktat romano di Goffredo Bettini, braccio destro di Veltroni, non ferma il sindaco. Da Roma, per bocca del braccio destro del leader del nascente Partito democratico, gli è stato contestato che le parole del suo appello elettorale «non sono nello spirito di chi vuole costruire il Pd come grande forza del rinnovamento della politica, del suo linguaggio, delle sue pratiche». Lui ancora ieri, oltre a precisarne il senso politico, ha ribadito che non compie nè ritirate e nè smentite a se stesso. E così, su un altro teatro politico, entra ancora una volta in scena il ”caso Salerno”.

D’Attorre: alzano polveroni anziché pensare ai problemi

settembre 24, 2007

(24 Set 07)

f.s.

«Le primarie devono affrontare i disastri del governo regionale per attrarre quanti votano per il centrodestra o hanno abbandonato l’Unione». Alfredo D’Attorre rinuncia alla difesa d’ufficio di Vincenzo De Luca, «della quale – spiega – il sindaco non ha bisogno», per andare al nocciolo della questione: ci sono dei problemi gravi in Campania, dice il segretario provinciale dei democratici di sinistra, problemi che non è più possibile nascondere e che bisogna affrontare pubblicamente coinvolgendo l’opinione pubblica, tutta senza rinchiudersi negli steccati del centrosinistra.

Il caso-De Luca continua a scuotere il centrosinistra. È d’accordo con le dichiarazioni del sindaco? «Mi sembra che si stiano alzando polveroni che non servono a niente: se qualcuno pensa di convincere gli elettori sulla base di comunicati che arrivano da Roma è fuori strada».

Che significa? «Significa che dobbiamo utilizzare queste tre settimane che mancano al voto per le primarie per affrontare temi di fondo che non possono essere elusi».

Ma che c’entrano gli elettori del centrodestra, che De Luca ha invitato a partecipare alle primarie? «Da un lato come centrosinistra noi abbiamo l’obbligo di approfondire questi problemi, dall’altro è auspicabile che questo confronto coinvolga anche gli elettori che non hanno votato Margherita o Ds o che, come dimostrano le ultime elezioni e soprattutto il primo turno alle amministrative, si sono allontanati dal centrosinistra proprio per i disastri che si protraggono in diversi settori della politica regionale».

Quindi? «A mio avviso dobbiamo fare uno sforzo perché il processo di formazione del partito democratico parli anche agli elettori che non fanno già parte di Ds e Margherita e che non fanno proprio parte del centrosinistra».

Altrimenti? «Il partito democratico, per indicazione dello stesso Veltroni, nasce come un partito a vocazione maggioritaria e in Campania non può rimanere rinchiuso negli attuali assetti di gestione del potere del centrosinistra regionale».

Andria: quel richiamo rischia di inquinare il voto

settembre 24, 2007

(24 Set 07)

Gian. Col.

«Il richiamo agli elettori di destra? In effetti non ci si iscrive al Pd andando a votare alle primarie. Ma si può inquinare il voto». Alfonso Andria dopo l’affondo abbozza un sorriso: «Questa volta sono io a puntare sulla salernitanità. Io sostengo un salernitano, Iannuzzi; e lo faccio con i modi della politica educata. Quella maleducata allontana la gente».

Torna l’eterno scontro Alfonso Andria e Vincenzo De Luca, eterni nemici costretti a militare nella stessa compagine, si contendono ancora una volta la piazza salernitana. «A Salerno ci sono due sensibilità non omologabili, ma questo è un concetto sano della democrazia. Ma io non mi sento contro nessuno. Da tempo sto conducendo una campagna capillare per il partito e non solo nella Margherita».

A Salerno al lavoro c’erano anche altri: De Luca, Villani… «Io li ho invitati il 24 luglio ad una riunione con Pistelli, c’erano centinaia di persone che avevano partecipato agli incontri preliminari. Parlarono 24 giovani tra i 30 e i 40 anni… loro non c’erano». Anche De Luca fa appello a tutti, anche al centro destra. «Quell’appello la dice lunga su come si vuole vivere questa fase. Non stiamo facendo una guerra. Chi la vive come uno scontro ha della politica una concezione tribale. Non possiamo dare un’idea ringhiosa di questo processo. La gente finisce per chiedersi perchè debba starci in questa faida o baraonda o regolamento di conti».

Margherita e Pd non sono mai riusciti a dialogare davvero in provincia di Salerno… «Vivo questo momento per costruire e non distruggere, senza l’idea di lanciare bombe: e poi al Comune c’è una lista civica e non il Pd. Ma i partiti sono superati dagli eventi, adesso. Inutile continuare ad emettere sentenze o anatemi».

Cosa si aspetta da Veltroni? «Beh, io con Veltroni e Fraceschini mi sono schierato da tempo, altri hanno atteso prima di collocarsi. Non aspetto indicazioni dall’alto». Invece… «Invece altri subiscono pressioni psicologiche. Sono soggiogati. Constato una contraddizione, tutta salernitana: si va verso la vittoria di Veltroni in regione mentre in provincia c’è un clima di terrore e si spara da un marciapiede all’altro».

Nel mondo una politica bipartisan

settembre 21, 2007

(21 Set 07)

Walter Veltroni
Caro Direttore,
all’inizio del XX Secolo la popolazione del pianeta superava di poco il miliardo di persone; in cent’anni il numero si è sestuplicato e 2 abitanti su 5 della Terra sono indiani o cinesi. È un mondo nuovo, che vede crescere l’aspettativa di vita degli europei di quasi tre mesi ogni anno e che registra il calo drammatico della vita media nei Paesi più poveri dell’Africa.
E’un mondo in movimento, nel quale aumenta il numero di chi viaggia per lavoro o per il piacere della scoperta, ma anche chi migra all’interno dello stesso continente o fra un continente e un altro inseguendo il sogno di una vita migliore. È un mondo che ha rivoluzionato il senso delle distanze, avvicinando con Internet idee e persone che vivono a migliaia di chilometri ma anche separando identità che vivono fianco a fianco. Dalla caduta del Muro il cambiamento rimane la cifra vera di questo tempo, un cambiamento che continua a stupire per intensità e rapidità, che apre orizzonti e offre opportunità, ma nasconde anche vecchie insidie e nuovi veleni. In questo tempo il Partito democratico vuole offrire all’Italia una visione di politica responsabile e capace di mobilitare le risorse della nostra comunità nazionale, in particolare delle nuove generazioni, destinatarie domani delle nostre scelte di oggi.

Responsabilità condivise
Il mondo nuovo sarà sempre più multipolare. Ce lo conferma l’emergere della Cina come superpotenza economica ma anche politico-militare, l’affermazione dell’India con la sua democrazia e la sua modernizzazione, il ritorno della Russia, l’ascesa di Paesi leader continentali come Sudafrica e Brasile. Questo comporterà il ripensamento del ruolo dell’Europa e più in generale il ridimensionamento dell’Occidente: nuove leadership, nuovi equilibri e dunque nuove strategie. È per questo indispensabile, oggi più di ieri, ribadire la scelta per una politica multilaterale e l’impegno italiano nelle organizzazioni internazionali che ne sono lo strumento. Un impegno che vive anche attraverso le missioni di pace in cui l’Italia è protagonista grazie alla professionalità e alla generosità dei nostri soldati. Siamo anche convinti che per giungere davvero a istituzioni sovrannazionali capaci di gestire le nuove sfide globali, per fare divenire questi strumenti più efficaci nei risultati e più rappresentativi di questo mondo nuovo, occorra continuare a lavorare per la riforma delle Nazioni Unite e delle istituzioni finanziarie internazionali, del Consiglio di Sicurezza, per l’istituzione di un Consiglio per lo Sviluppo Umano e di uno per l’Ambiente.

Avanguardia europea
Il Partito democratico deve rilanciare in Europa il processo d’integrazione politica. L’Italia ha scommesso tutta se stessa sull’Europa fin dalla sua nascita, convinta che il massimo dell’integrazione comunitaria coincidesse con il massimo dell’interesse nazionale. L’Europa massima possibile, dunque, non quella minima indispensabile. L’Europa non come problema ma come prima risposta politica a chi dice che la globalizzazione è ingovernabile. Questo ci ha spinti ieri a essere molto esigenti nella scrittura del trattato costituzionale e a lavorare ora per non disperdere la sostanza di quel lavoro, per chiedere una politica estera e di sicurezza comune, una politica di rinnovamento del modello sociale europeo, un maggiore impegno verso ricerca e innovazione. Ma se l’Europa a più velocità già esiste nei fatti, dobbiamo impegnarci per una vera democrazia europea. Se necessario, sia un nucleo forte di Paesi a procedere per primo sulla strada che porta a una vera e propria Unione politica. Una fase costituente dell’Europa politica per diventare global player, per uscire da un’idea paternalistica di Europa per gli europei e giungere finalmente a un’Europa degli europei. Vogliamo scommettere fin d’ora sulla generazione figlia del programma Erasmus, estendendolo e potenziandolo fino ad arrivare a rendere normale per tutti un periodo di studio all’estero di almeno sei mesi. Le elezioni europee del 2009 avranno una grande rilevanza: noi rappresenteremo l’idea di un’Europa più forte e democratica con l’obiettivo di costruire al Parlamento e nel nostro continente un grande campo dei democratici, dei socialisti e dei riformisti, a vocazione maggioritaria.

L’hub mondiale del nuovo secolo
Il Mediterraneo è tornato a essere un grande crocevia del mondo e l’Italia può giocare la sua straordinaria posizione costruendo un circuito «euromediterraneo» che offra opportunità inedite nei trasporti, nell’uso delle risorse, dell’ambiente, dell’energia, nel governo dei flussi migratori, nel dialogo interreligioso e culturale. La nostra collocazione fa di questo mare e del nostro Paese il nuovo hub mondiale dei commerci con l’Oriente e delle rotte energetiche provenienti dal Caspio, dal Golfo, dalla sponda settentrionale dell’Africa. Il Mediterraneo deve divenire il luogo del dialogo politico-culturale che ricompone le gravi fratture del nostro tempo, e l’Italia l’esempio della miglior convivenza possibile. Occorrono però programmi di modernizzazione industriale e infrastrutturale, promozione d’investimenti, corridoi che leghino la sponda Sud alle reti europee, sostegni alle piccole e medie imprese italiane assai adatte a diffondersi in quest’area. L’iniziativa europea verso i Balcani occidentali e la Turchia per un loro futuro accesso all’Unione è nostro interesse strategico. L’Italia deve favorire le riforme in quei Paesi e la loro stabilizzazione istituzionale e sociale che resta l’unico modo per garantire il superamento dei conflitti che li hanno attraversati.

Amicizia responsabile
L’Italia deve mostrare agli Stati Uniti d’essere un Paese non solo amico ma utile. Alla fine della guerra fredda abbiamo perso il nostro ruolo di frontiera della frattura Est-Ovest, ma per noi il legame atlantico resta vitale poiché costruito su una comunità di valori e di principi. Dobbiamo però da un lato confermare la funzione di Paese amico poiché influente e ascoltato in Europa, dall’altro interpretare la novità possibile: la centralità del Mediterraneo, l’integrazione dei Balcani e della Turchia, il dialogo con il mondo arabo sono obiettivi che rispondono anche alla necessità di garantire la pace, la sicurezza, e la lotta al terrorismo. Infine, deve essere chiaro che amicizia e lealtà implicano, se necessario, esprimere diversità di opinioni così come negoziare pragmaticamente la propria agenda. Una cosa, ad esempio, è appoggiare il modo in cui gli Stati Uniti si seppero muovere, nel segno del multilateralismo, per intervenire in Afghanistan all’indomani dell’11 settembre, altro è «stare con gli americani a prescindere», come è stato detto in occasione della sventurata guerra in Iraq. Tanta acriticità non serve a noi, e si è rivelata poco utile anche a loro.

No excuse
Pace, democrazia e sviluppo sono obiettivi importanti per l’Italia e devono divenire una priorità per tutta la comunità internazionale. È in particolare in Africa che le sfide globali devono essere vinte, a cominciare dal raggiungimento degli «Obiettivi di sviluppo del millennio» fissati dalle Nazioni Unite e sui quali scontiamo un inaccettabile ritardo. Ma occorre intensificare gli sforzi per superare la tragedia del Darfur, per stabilizzare il Congo, per dare una risposta alle altre crisi come in Somalia e in Zimbabwe. Il prossimo summit euro-africano che si terrà a Lisbona dopo un’interruzione di ben sei anni dovrà produrre risultati effettivi per lo sviluppo, la prevenzione dei conflitti, l’affermazione dello Stato di diritto. La lotta all’Aids, la sicurezza alimentare, la promozione della democrazia, il sostegno alla società civile sono le priorità di un rinnovato impegno italiano nella cooperazione internazionale. Il nostro Paese possiede uno straordinario patrimonio di solidarietà e di competenze nella società civile, nelle ong e nelle istituzioni locali. È tempo di valorizzarlo attraverso una nuova legge sulla cooperazione e un incremento programmato delle risorse disponibili. Lottare contro la povertà, dare speranze di una vita dignitosa, rappresentano un imperativo morale e una necessità, perché le ingiustizie, oltre che inaccettabili in sé, diventano fonte di insicurezza per tutti.

Fermiamo le ingiustizie
L’iniziativa per una moratoria delle esecuzioni capitali ha incontrato un grande successo che speriamo di confermare anche alla prossima riunione dell’Assemblea Generale dell’Onu. Il sostegno europeo all’azione italiana premia la costanza delle organizzazioni che da tempo si battono per questo obiettivo, ma anche l’impegno del Parlamento, della diplomazia e del governo. E del resto la nostra elezione nel Consiglio di Sicurezza e poi nel Consiglio sui Diritti Umani riconosce sia l’attivismo italiano che il nostro tentativo di valorizzare comunque un coordinamento europeo che operi per un multilateralismo efficace. L’affermazione dei diritti umani è un faro che deve orientare la nostra azione: la Corte di Giustizia e il Tribunale Penale Internazionale devono essere il centro di un sistema che garantisca la punizione dei crimini più gravi, ma anche gli accordi di cooperazione siglati dal nostro Paese dovranno contenere clausole serie relative alla tutela dei diritti umani.

Cambiare aria per un mondo sostenibile
L’umanità vive una crisi ecologica su scala planetaria. Ciascuno di noi lo avverte sulla propria pelle: clima impazzito, stagioni irriconoscibili, inquinamento, desertificazione e riduzione della biodiversità. E in più l’accesso all’acqua potabile ancora negato a oltre un miliardo di persone. Una politica internazionale moderna deve assumere la sfida dei cambiamenti climatici come stella polare, come insegna la recente iniziativa guidata da Al Gore. Non serve allarmismo, ma un’immediata e responsabile consapevolezza del rischio. Il genere umano ha la possibilità di salvaguardare la natura e di soddisfare i propri bisogni grazie a uno sviluppo sostenibile, dato che le conoscenze scientifiche e le innovazioni ci offrono nuovi sistemi produttivi, nuove merci e servizi meno inquinanti e a basso consumo di materiali ed energia. Il raggiungimento degli obiettivi di Kyoto, rafforzati dalle decisioni dell’Unione sulla CO2, e la fissazione degli obiettivi per il periodo successivo al 2012, vanno considerati una priorità e un’occasione irripetibile. In questa emergenza è positiva l’idea di creare una nuova istituzione internazionale, una sorta di Consiglio di Sicurezza dell’Ambiente, che sia parte integrante del sistema delle Nazioni Unite, che riunifichi e rafforzi competenze sinora deboli e disperse, che sappia promuovere un «nuovo ordine ambientale».

Nuove energie
La tendenza al superamento dei combustibili fossili e l’impiego di fonti di energia rinnovabile a ridotto impatto ambientale ci spingono verso nuove soluzioni. È indispensabile che l’Italia si doti nel quadro europeo e internazionale di una strategia di sicurezza energetica che comprenda la certezza dell’accesso alle fonti, il risparmio energetico, la diversificazione, l’impatto ambientale, la ricerca e lo sviluppo di fonti alternative. Occorre investire sulle energie rinnovabili. Il loro impiego permette non solo di ridurre le emissioni di gas a effetto serra, ma anche l’eccessiva dipendenza dalle importazioni di combustibili fossili. Dobbiamo perciò seguire con convinzione la strada indicata dal recente Consiglio europeo: arrivare entro il 2020 a una quota del 20% di energie rinnovabili e a una quota minima di biocarburanti del 10% nel settore dei trasporti.

Allontanare la minaccia nucleare
L’umanità sta rischiando concretamente di entrare in una seconda era nucleare. È uno spettro reale. Dopo anni di riduzione degli arsenali, Stati Uniti e Russia sono tornati ad aumentare le spese per il loro ammodernamento e potenziamento. In diversi Paesi si sta facendo strada la convinzione che il possesso di armi nucleari rappresenti la migliore garanzia di sicurezza contro un attacco esterno e comunque una «carta» da spendere sul piano dei rapporti di forza in una determinata area o a livello più ampio. Troppo sottile è il confine tra scopi civili e militari per non guardare con preoccupazione alla diffusione delle tecnologie nucleari o alla crescente disponibilità dell’uranio, materia prima indispensabile per la produzione di armi di distruzione di massa. Impossibile, in particolare, non provare inquietudine di fronte alla crisi nucleare iraniana. Fermezza e dialogo sembrano aver condotto a una soluzione positiva rispetto al regime nordcoreano, che si è impegnato a smantellare i suoi impianti entro la fine dell’anno. Fermezza e dialogo dovranno essere il modo per arrivare al rispetto delle risoluzioni dell’Onu da parte di Teheran, a una reale ed effettiva cooperazione con l’Agenzia internazionale per l’energia atomica e alla sospensione dei programmi di arricchimento dell’uranio.

Oltre la siepe
Siamo testimoni, dunque, di un cambiamento storico che mette in discussione la politica estera tradizionale, ma offre anche all’Italia, alla sua privilegiata posizione geografica, alla sua cultura millenaria, l’occasione di giocare un inedito sistema di relazioni in Europa e nel mondo. Il Partito democratico offre questo insieme di scelte al dibattito del Paese. Non ci nascondiamo l’obiettivo di poter far convergere su di esse le altre principali forze politiche così da tornare finalmente a un’idea condivisa di politica internazionale – che da sempre dovrebbe essere il campo delle intese bipartisan – e da superare quelle logiche di schieramento di parte che ci hanno spesso indebolito. Sarà così possibile valorizzare l’amore e il rispetto che il mondo intero nutre per il nostro Paese e unire le grandi energie di cui disponiamo per promuovere sempre meglio gli interessi della nostra comunità nazionale che, oggi più che mai, coincidono con un più generale interesse europeo e internazionale.

Il Pd visto da un passante

settembre 12, 2007

(12 Set 07)

Guido ceronetti
Tempo un anno – la ferma di un mercenario – tutta la gloria di Qedàr sarà sparita» (Isaia 21, 16). Il richiamo a un versetto biblico di otto secoli prima di Cristo significa, diluendolo nel tempo, l’argomento. Di per sé, partito democratico ha la consistenza di un enorme vento di chiacchiere in astratto, che la realtà sta a guardare stupefatta da tanta capacità italiana di emetterne ragionandoci sopra all’infinito – ma «sotto la maschera un vuoto» (Seferis). Il versetto del profeta semitico e il verso del moderno poeta greco danno una definizione sufficiente della penuria d’essere della cosa. Penuria d’essere perché la pochezza d’immaginazione politica caratterizza patologicamente tutti i progetti che provengono da queste segreterie di partito dal malrespiro, il cui linguaggio non è mai un autentico dire qualcosa, un mordere una fettina di reale coi denti. Sembra gente che, avendone i mezzi, cerchi di allestire una grande illuminatissima vetrina di moda in via della Spiga per esporre due o tre camicette con buchi prese da una discarica e un paio di vecchie pantofole affezionate ai piedi di una pensionata che si circonda di consunto.

Al sensibile e intelligente Veltroni potrei rimproverare soltanto la sua esagerata cinefilia – perché, quanto a Roma, la città è quella che è, non puoi che lasciarla peggio di come l’hai trovata perché non la governi, se ne chiudi un focolaio se ne aprono due. Tuttavia nei suoi discorsi di candidato principe di questo Qedàr democratico anche il circolo diventa docilmente quadrato, salvo a restare circolo, duro più del torrone d’Alba. Se Veltroni osasse parlare di insolubile, cosa facilissima a chi non s’imbarca nella Nave dei Folli del potere, si avvicinerebbe troppo ad una realtà fatta quasi tutta di cose che sfuggono di mano e che non si lasciano modellare, mentre l’irrealismo che tira fuori la volontà politica, noiosamente, come filtro magico, è richiesto e imposto, a lui e agli altri, come frontiera invarcabile.

Ma di fronte all’Insolubile, una volta forzato a constatarlo, quale sarà il comportamento di chi assume un potere? Uno solo. Fingere, in uno stile oratorio che cerca di differenziarsi (e vocalmente ci riesce), che i problemi insolubili, irti di nodi con aculei, grazie al suo applaudito pilotaggio prenderanno la strada maestra della soluzione più giusta e razionale. Tenere questa fondamentale menzogna contro ogni possibile smentita dei fatti. E conosciamo – poiché l’uomo politico è per tre quarti il suo modo di esporre e di esporsi – gli stili oratori degli uomini più in vista, la veemenza – dal rimando tragico – del loro ottimismo incurabile, tratto mediatico comune. Qualunque cosa dicano o progettino, la loro impotente «volontà politica» si decompone.

Lo stesso nome, partito democratico, denuncia assenza cronica d’immaginazione: nell’evolversi del linguaggio non regge più partito, ancor meno regge democratico, un barile di Nutella. Istituzionalmente tutto quanto è già democratico, non c’è un altro container. Se partito è ormai epiteto, democratico è ovvietà al cubo. (Stessa perdita di sostanza linguistica e semantica è nell’inalberare comunista, uno spadellamento di pesce al mercurio surgelato: soltanto in Italia acchiappa voti tanta fragranza). Almeno non hanno rifritto sinistra: doversi obbligatoriamente proclamare di sinistra, riversandolo in formule perennemente false, è già mettersi in ceppi, poveretti. Gli suggerirei di aggiungere almeno italiano, perché la formulazione così appare, oltreché logora alla nascita, anche mùtila: Partito Democratico Italiano è un completamento che funziona – anche in sigla: PDI. Il rischio è che in gergo i futuri iscritti e credenti e i loro esperti manovratori vengano qualificati come demotaliani. Ma non c’è vergogna a dirsi partito italiano. Di cittadini che valgano fuori dei partiti non c’è penuria! Ma sarà di sinistra dirsi italiani? Nel timore che Italia e italiano siano «cose di destra» i padri fondatori si asterranno dall’evocarli.

Passerò in via della Spiga a vedere la loro vetrina: i prezzi, non essendo da stilisti, avranno il pudore, spero, di essere alla portata di tutti.

Il partito che vorrei

settembre 4, 2007

(4 Set 07)

Enrico Letta
Caro Direttore,
bene ha fatto ieri La Stampa, con l’editoriale di Marcello Sorgi, a porre finalmente la questione chiave delle primarie. Questo avviene a campagna già ampiamente avviata e spero possa contribuire a correggere la tendenza con la quale si sta svolgendo questa fase del dibattito. Non stiamo facendo le primarie per la premiership. Quelle le abbiamo fatte due anni fa e le rifaremo, con l’intera coalizione, in vista delle prossime elezioni politiche. Stiamo, invece, costruendo un partito ex novo. Lo stiamo realizzando con una modalità originale, coinvolgendo direttamente – o tentando di farlo – la platea degli elettori attuali o potenziali del Pd.

Si tratta anche di scegliere un nuovo, possibile, modello di forma-partito. Per questo occorre discutere e confrontarci, partendo dalla constatazione oggettiva della difficoltà di innovare la politica che ha incontrato buona parte dei partiti attualmente esistenti. Questo è un compito che, almeno in teoria, dovrebbe spettare in primo luogo a chi è all’opposizione, ma che oggi da noi è terreno di discussione tra le forze politiche che fanno parte della maggioranza.

Un merito che ha certamente consentito al centrosinistra di riacquisire centralità, ma che, di per sé, non basta. La campagna per le primarie del Pd, infatti, ha finora marginalizzato il tema, probabilmente anche per la sua complessità. Basti riflettere su un’evidenza: negli ultimi anni tra le innovazioni della politica italiana la più resistente e contagiosa è stata, senza dubbio, l’intuizione berlusconiana del «partito personale». Resistente perché dura da circa quattordici anni. Contagiosa perché l’idea che «il partito sia il suo leader» e che nei partiti «chi perde esce e fonda un altro partito personale» è diventata ormai la regola. A destra, a sinistra, al centro. Non esiste niente di simile in Europa. In Germania, Francia, Regno Unito i leader dei partiti tradizionali sono in carica solo temporaneamente. Gli uomini passano, le idee e le strutture rimangono.

Solo i Ds e la Margherita hanno abbozzato negli ultimi anni un profilo di partito diverso. Ci hanno provato, almeno. Sono riusciti a scongiurare il rischio del prototipo berlusconiano, ma entrambi hanno faticato a mettere a punto un modello compiuto di rappresentanza per l’Italia del 2015. Anche per questo nasce il Partito democratico. Per dare una risposta alla domanda – finora inevasa – di politica e di nuove forme dell’agire politico.

Mi sembra di cogliere in questo tema la vera sfida del nostro dibattito. Provo allora a tracciare i contorni di una proposta innovativa di forma-partito: rifiuto della logica personalistica; costruzione di un partito delle autonomie, non centralista, improntato al pieno rispetto del principio della sussidiarietà, con segretari regionali scelti dai democratici dei singoli territori e non decisi a Roma; prevalenza del modello orizzontale (il wiki-Pd) rispetto a quello verticale e verticistico; eliminazione di inutili barriere alla partecipazione, come l’obbligo di versare 5 euro per votare; verifica periodica dei gradi di consenso per la scelta dei candidati e rifiuto della cooptazione che continua a imperare, complice anche una sciagurata legge elettorale; scelta di una «competizione senza drammi», virtuosa e trasparente, che qualifichi il confronto. Gli spazi per la costruzione di un partito aperto, quindi, ci sono. E questo nonostante una scelta che consideravo e considero sbagliata, quella delle liste bloccate, a cui mi sono opposto nel Comitato dei 45.

Nelle ultime settimane ho avvertito un certo isolamento in questa mia voglia di discutere della forma-partito del Pd. Ne comprendo molte delle motivazioni. In primo luogo, chi sta in ciascuna delle «sale macchine» di Ds e Margherita è quasi fisiologicamente indotto a ritenere che il nodo possa sciogliersi solo con un buon aggiustamento tra i due modelli. Il grande pubblico poi è naturalmente più interessato al fisco, alla scuola, a questioni con ricadute dirette sulla propria quotidianità. I media ne prendono atto e relegano il tema ai margini. Ma è un errore. Lo stesso che fanno gli altri candidati alla leadership del Pd quando preferiscono occuparsi prevalentemente dell’agenda di governo o di altri argomenti ancora.

Il modello di partecipazione al Partito democratico è, invece, un tema centrale. Per me centrale a tal punto che nel corso del «Festival delle idee» – che si terrà a Piacenza il 14 e 15 settembre prossimi – dedicheremo alla forma-partito un forum tematico specifico. Lì metteremo a fuoco le idee che qui ho voluto solo accennare. Lì, soprattutto, proveremo a restituire la giusta centralità e il rilievo che merita alla discussione e alla volontà e alle decisioni dei nostri elettori anche su questo tema. Lo faremo continuando a occuparci di contenuti, declinando le tre parole chiave – libertà, mobilità, natalità – da cui l’appuntamento di Piacenza sarà caratterizzato. Ma lo faremo con grande determinazione. Pienamente consapevoli che, se alla domanda sul nuovo modello di partito non daremo una risposta credibile, prevarranno, in silenzio, altre logiche.

Presidente ombra

settembre 4, 2007

(4 Set 07)

Federico Geremicca
E poi dicono che la politica non è, a modo suo, una scienza esatta. Che presuppone esperienza, tecnica e perfino memoria. Ecco, se qualcuno avesse fatto ricorso almeno alla memoria, forse il centrosinistra non si sarebbe cacciato in questo gigantesco e pericoloso pasticcio che va già sotto il nome di «Prodi e il premier ombra». Sarebbe bastato ricordare che cosa accadde nel 2001 quando, con Giuliano Amato governante a Palazzo Chigi, fu invece messo in pista Francesco Rutelli come candidato premier.

Berlusconi ci sguazzò per l’intera campagna elettorale («Amato ha fatto così male che nemmeno lo candidano»): una campagna elettorale che, alla fine, lo vide largamente vincitore. Ora, si è soliti sentenziare che la storia non si ripete mai allo stesso modo, ed è in questo che deve sperare l’Unione: perché il dualismo Prodi-Veltroni non soltanto è divenuto evidente, ma sta quotidianamente segnando (a danno del governo) la polemica politica dopo la pausa ferragostana.

Da un po’, quando si riferiscono a Veltroni, alcuni ministri lo chiamano “premier ombra”. Altri, come Angius, addirittura “premier in pectore”. «Ci era stato spiegato – ha lamentato ieri il vicepresidente del Senato – che il Pd sarebbe stato garanzia di stabilità, e invece è un fattore di tensione nella maggioranza. Non possono coesistere due presidenti del Consiglio, uno in carica e l’altro in pectore: Prodi e Veltroni la piantino e si mettano d’accordo su come governare l’Italia». Facile a dirsi, più difficile a farsi, considerate le esigenze assai diverse dei due: Prodi punta sulla continuità del proprio lavoro, fida su quella che una volta si sarebbe definita politica “dei due tempi” ed è certo che alla fine il risanamento sarà raggiunto, e con esso la possibilità di metter mano alla riduzione delle tasse; Veltroni, al contrario, non è affatto convinto che il governo abbia quattro anni davanti, chiede risultati spendibili in una eventuale campagna elettorale ravvicinata ed è preoccupatissimo dall’ipotesi di finire lentamente nel pantano nel quale è costretto a muoversi il premier. Non facile raggiungere un’ intesa sul che fare.

Se alle difficoltà oggettive si aggiungono poi i sospetti prodiani sulle reali intenzioni del sindaco di Roma e quelli veltroniani su certe manovre del clan del premier, il gioco – anzi il pasticcio – è praticamente fatto. E il risultato può finire per essere quello di ieri: con i giornali che titolano “Tasse, Veltroni contro Prodi”, Rutelli che scende in campo affianco del sindaco di Roma («Bisogna dare un messaggio di riduzione fiscale già nella prossima finanziaria») e Palazzo Chigi che tiene il punto e se ne frega: «La riduzione delle imposte è un impegno di lungo periodo, la priorità è ridurre il debito». Scontro frontale, e altro che partito di lotta e di governo… Se continuasse così, l’opposizione potrebbe continuare le vacanze, che tanto a far traballare l’esecutivo ci pensa il partito che avrebbe dovuto rafforzarlo.

Dicevamo dei sospetti, e sia Prodi che Veltroni – politici di lungo corso – ne nutrono in abbondanza. Il premier non ha mai speso una parola meno che affettuosa nei confronti del sindaco di Roma: ma da giorni ci pensano gli uomini (e le donne) a lui più vicini. Rosy Bindi, per esempio, è settimane che ha messo Veltroni nel mirino. L’ultima ieri: «Non fa bene al governo né al Pd il conflitto giornaliero tra partito e governo, così come questo contrappunto giornaliero di Veltroni ad ogni azione di Prodi». Che, non va dimenticato, ha probabilmente subito – facendo buon viso a cattiva sorte – l’improvvisa accelerazione con la quale furono decise la scesa in campo del sindaco di Roma e la sua potente investitura con le primarie (ancora pochi giorni prima di quella scelta, infatti, alla guida del Pd Prodi voleva uno speaker di sua personale nomina). Se a questo si somma la convinzione prodiana che Veltroni stia diventando la testa di ponte di quanti nella Margherita non lo hanno mai amato (da Rutelli a Marini, per intendersi) si capisce il perché del tener duro del premier di fronte a qualunque sollecitazione arrivi dal sindaco.

Né meno sospettosi circa il reale gioco del capo del governo, naturalmente, sono Veltroni ed i suoi fedelissimi. Per il futuro leader del Pd l’ideale sarebbe un esecutivo che recuperasse consensi nel Paese, durasse ancora un paio di anni e gli lanciasse la volata per la prima sfida a Berlusconi. Ma Veltroni non crede praticamente più che questo sia possibile. L’ultimo mese – con la ripresa di conflittualità nella maggioranza, minacce di crisi e stallo totale sulla legge elettorale – lo hanno convinto, piuttosto, che il bivio di fronte al governo sia riassumibile più o meno così: o una penosa agonia (che renderebbe poi certa la sconfitta elettorale) o un improvviso precipitare verso le elezioni, che ai suoi occhi potrebbe perfino essere il male minore. Quel che è certo, è che per Veltroni è sempre valido il principio che illustrò il suo braccio destro, Bettini, all’avvio dell’avventura delle primarie: «Il Pd non può impiccarsi a questo governo». E che succede, allora, se la sensazione dovesse diventare quella di uno stanco tran tran, di un esecutivo – insomma – che tira a campare?

Se le cose stanno così – e i fatti, per ora, sembrano confermarlo – le tensioni tra la “strana coppia”, premier in carica e presidente in pectore, non potranno che aumentare, a tutto danno dell’azione di governo e del processo di nascita del Partito democratico. L’auspicio che formulano osservatori neutrali è che il necessario chiarimento arrivi prima che sia troppo tardi. Prodi e Veltroni sanno che non possono lasciar precipitare le cose, e si incontreranno quanto prima per decidere il da fare e scongiurare un’ipotesi che fino a ieri sembrava fantapolitica o poco più: e cioè il divorzio tra “Romano e Walter”, democratici ante-litteram e, soprattutto, gli uomini che in tandem fecero sognare l’Ulivo portandolo all’indimenticata vittoria del 1996.

Se il nuovo Pd somiglia alla vecchia Dc

settembre 3, 2007

(3 Set 07)

Marcello Sorgi
La disputa sulle correnti e il correntismo, male oscuro venuto a minare il futuro del Pd prima ancora della sua nascita, si sta svolgendo in modo un po’ astratto: inutile, se non controproducente, per un partito che deve ancora esordire, e che vuol nascere in modo nuovo, chiamando i cittadini a partecipare direttamente alla fondazione e a eleggere il leader nelle primarie. L’eccezione – non l’unica, né la più esplicita, solo la più recente – riguarda Massimo D’Alema, che, nella prima intervista a Repubblica dopo le vacanze, ha detto chiaramente che il partito che si va a costruire è fatto per contenere una pluralità di posizioni e sarà diverso in tutto e per tutto dal vecchio Pci monocratico e accentratore. Di qui una certa tensione nel dibattito interno e l’avvento di più candidature per la segreteria, che non devono stupire, anzi fanno parte del gioco.

Ciò che D’Alema non dice, ma altri dirigenti Ds e Dl hanno detto prima dell’inizio della corsa congressuale, è che il modello scelto per il nuovo partito è quello della Dc. Depurato, certo, di tutte le degenerazioni che portarono il vecchio partitone cattolico e centrista a pagare il prezzo più alto di Tangentopoli e della caduta della Prima Repubblica.

Ma, al tempo stesso, ritrovato come esempio di convivenza possibile tra linee e ispirazioni diverse, anche contrastanti, e come strumento per vincere le elezioni, andare al governo e possibilmente restarci. Che ci fosse stato qualcosa di sbrigativo, retorico, esagerato, nella cancellazione di un pezzo importante di storia italiana come quella della Democrazia cristiana, è ormai un fatto acclarato e oggetto di revisione storica. Ma potrebbe rivelarsi azzardato, oggi, restaurare il modello Dc, senza metterne in conto le conseguenze, e soprattutto senza valutare a fondo se sia in grado di stare al passo coi tempi.

Il modello di cui si parla infatti funzionò benissimo fino agli Anni 70 e all’inizio della lunga crisi democristiana, e consentì al partito cattolico di sopravvivere vent’anni più del dovuto. Era basato su un semplice meccanismo: all’interno della Dc, le minoranze contavano come e più delle maggioranze. Le correnti minoritarie, alleandosi tra loro e cercando sponde tra gli scontenti di quelle maggioritarie, riuscivano ogni anno a imporre un cambio di governo, e ogni due o tre un cambio di segreteria. Il vincitore annunciato, e scelto quasi sempre prima della celebrazione del congresso, sapeva di essere lo sconfitto designato della volta dopo. Tra gli sconfitti, invece, si preparava il prossimo segretario. In una storia di quasi mezzo secolo, le eccezioni (De Gasperi, Fanfani, Moro, De Mita) vennero quasi sempre a confermare la regola. Rivelandosi ininfluenti, più o meno, sulla stabilità dei governi e sul turn-over di ministri e sottosegretari, vero cemento, con la spartizione dei posti di sottogoverno, dell’altalenante unità interna e della buona, buonissima, o discreta, secondo i tempi, performance elettorale del partito.

Alla Dc, inoltre, la collocazione centrale, durata (fino a Craxi) per quaranta dei cinquant’anni, consentiva di dichiararsi sempre anticomunista e a favore di alleanze di centrosinistra moderate, ma di praticare in realtà, per dirla con Andreotti, la «politica dei due forni»: alleata al Governo con socialisti e laici, e in Parlamento con il Pci, a cui un’esosa finanza pubblica, della quale ancora si piangono le conseguenze, elargiva i fondi necessari al mantenimento delle regioni rosse, in cambio di un’opposizione morbida su gran parte del pubblico sperpero. Per molti anni, le leggi finanziarie (che non si chiamavano così) non erano quel parapiglia, quello scontro all’ultimo sangue, su tasse e tagli, che sono diventate oggi. L’illusione, funesta a guardarla con gli occhi di oggi, era che a spese dello Stato ce ne fosse per tutti. Era considerato un vanto, durante le trattative in commissione Bilancio o le votazioni finali, uscire dall’aula urlando, orgogliosi, «Abbiamo ottenuto tremila miliardi in più!», per questa o quella causa: ignorando, o fingendo di ignorare, che quel voto e quel compromesso sottobanco avrebbero accresciuto un debito pubblico già enorme, insopportabile e caricato sulle spalle delle successive generazioni.

Adesso che di nuove tasse è rimasta a parlare la sinistra radicale, mentre gli altri fanno i conti con costi e ambiguità delle cosiddette «politiche sociali», riflettere sull’epoca in cui i partiti (all’apparenza) andavano bene e il Paese male può servire, almeno, per non ripetere gli errori. Certo, tutti insieme, Veltroni segretario in pectore, i due avversari forti Bindi e Letta e il gruppo di outsider pronti a costituire una minoranza di blocco, fanno un perfetto quadro di vigilia democristiana. Toccherà a loro convincere gli elettori delle primarie che non sarà così.

Ma la domanda vera da farsi è se il modello post o neo Dc sia ancora adeguato a una moderna, e anomala finché si vuole, democrazia come quella italiana. A un sistema in cui la centralità non è più di nessuno, ma, giorno dopo giorno, di chi la occupa con slogan e strategie di marketing più efficaci. Al quotidiano confronto-scontro, da mattina a sera, nella miriade di interviste e talk-show televisivi. Alla competizione basata sulla faccia tosta, più che sulla proposta. E alla rincorsa a distinguersi, sempre, pur di avere l’ultima parola.

È in questo quadro che il Pd nascituro mostra già qualche affanno, ma tuttavia dovrà misurarsi. E se è sicuro che un partito nuovo, in cui posizioni diverse possano convivere, sia preferibile a una coalizione in cui le differenze devono necessariamente emergere, c’è forse un ultimo, ulteriore elemento su cui riflettere. Pur avendo avuto la possibilità di costruirlo a sua misura, Berlusconi – non va dimenticato – ha vinto ed è andato due volte al governo con un partito monocratico e accentrato di cui detiene il controllo assoluto ormai da quattordici anni. Così, paradossalmente, è riuscito a occupare gran parte dello spazio politico della vecchia Dc con un modello che funziona un po’ come quello comunista (e in qualcosa gli somiglia). Proprio quel vecchio Pci, la cui ombra D’Alema vorrebbe cancellare una volta e per tutte.

Pd, De Mita apre sulla segreteria regionale

settembre 2, 2007

(2 Set 07)

«Non si fonda un partito sul nuovismo, sul nuovo conio, su ipotesi di alleanze diverse. Queste sono banalità che alimentano l’impotenza. Il Partito democratico ha un solo fondamento possibile: l’idea popolare di costruire, nel vivo degli interessi delle persone, una libertà che valga per tutti e per questo diventi verità condivisa».

Al convegno dei cattolici democratici (sostenitori del ticket Veltroni-Franceschini), Ciriaco De Mita ha parlato ieri dopo la relazione di Zygmut Bauman, il sociologo inventore della formula della «società liquida». È stato un discorso sulle ragioni della politica. Discorso applauditissimo. Come sempre capita in queste occasioni. Ma molti dei presenti, vertici compresi, si chiedevano che ruolo concreto De Mita intendesse giocare nel Pd. In altre parole: se avesse davvero intenzione di lanciare la sfida della sua candidatura alla segreteria regionale. Dal palco De Mita non ha fatto il minimo cenno alla questione. Ma appena tornato al suo posto in platea, dopo tanti complimenti e strette di mano, ha confidato: «Questo è il mio editoriale per il Pd. A me non importa chi lo firma. L’importante è che ci siano scritte queste cose».

Nella giornata, che oltre al confronto pubblico ha consentito tanti colloqui privati, De Mita ha precisato ai suoi interlocutori che «senza questi contenuti», non ci sarà neppure una sua adesione al Pd. Il «non ci sto» in questo caso non riguarderebbe solo la segreteria regionale. E a questa ha unito un’altra orgogliosa precisazione: «Decido io quello che deve fare. Non lo lascio decidere ad altri». Come dire: nessuno si azzardi a parlare di «passo indietro». Però la parole di Walter Veltroni a Telese (che ha negato ogni pregiudiziale verso De Mita) e quelle di Dario Franceschini alla festa dell’Unità di Bologna («Non sarà Roma a dire sì o no. Sarà la Campania a decidere il suo segretario regionale») hanno fatto calare la tensione. E forse quella battuta sull’editoriale che vale più di chi lo firma, potrebbe significare che De Mita sta pensando di candidare alla segreteria regionale non se stesso, ma un popolare a lui vicino. In ogni caso De Mita ha posto domande direttamente a Veltroni. Domande che non nascondono una critica sulla stato dell’arte.

La prima condizione posta è una base culturale solida, non affidata ad un generico nuovismo: «Desiderare il nuovo non vuol dire costruirlo, anzi spesso vuol dire perpetuare il vecchio». Seconda condizione: l’idea popolare di partito. «Il Pd non nasce per recuperare pezzi di storia. E a noi cattolici-democratici non spetta neppure la difesa delle istanze religiose. La sfida è che i nostri valori sociali e di libertà diventino la migliore convenienza per tutti».

Un partito per l’Italia. «I nuovi conii servono solo ad una politica come conquista e gestione del potere». Domande per Veltroni. Ma anche per i popolari riuniti ad Assisi per sostenere Veltroni: «Non serve una corrente cattolica nel Pd, questa cultura deve diventare il fondamento dell’intera impresa».
Per De Mita la soluzione non è quella dei «cattolici adulti» che affidano tutto alla «spiritualità individuale». Ma neppure quella di una presunta «religiosità popolare» che cerca di trasferire in politica la linea della Chiesa. De Mita non ha risparmiato una critica diretta al cardinal Ruini: «Gli rimprovero di aver contribuito a ridimensionare la cultura del popolarismo». La sua prima sfida comunque è al «gruppo dirigente» del Pd. Ora attende una risposta. Da Veltroni e Franceschini. Se l’editoriale verrà sottoscritto, De Mita potrebbe rinunciare alla competizione regionale. E magari partecipare, insieme ad altri «padri» del Pd, ad un futuro organismo nazionale.

PD, 2046 delegati per un miracolo

settembre 1, 2007

(1 Set 07)
Michele Ainis
Quale evento si prepara il 14 ottobre? Se chiedi a qualcuno dei (pochi) italiani che seguono ancora la politica, ti risponderà tutto d’un fiato: quel giorno verrà eletto il segretario del Partito democratico. Giusto? No, sbagliato. Perché il 14 ottobre verrà eletta viceversa l’assemblea costituente del nuovo partito, la più affollata, caotica e vociante costituente della storia: 2.460 delegati. Curioso che quest’audace innovazione sia passata fin qui sotto silenzio. Curioso che i candidati alla segreteria, da Veltroni alla Bindi, non abbiano avvertito l’esigenza di dire due parole sulle folli regole che terranno a battesimo il partito. O forse no, non c’è da meravigliarsene. Forse tutti tacciono perché un po’ se ne vergognano. Ne avrebbero d’altronde ogni ragione. Se all’orizzonte del Partito democratico c’è l’obiettivo di ridurre i costi e i posti della politica (come dichiarano all’unisono i vari candidati), non è proprio un bell’inizio. Anche perché lo stesso giorno verranno eletti nel contempo i 4.800 delegati alle 20 costituenti regionali e alle 2 costituenti provinciali. Totale: 23 assemblee costituenti, 7.260 delegati. Tombola.

Ma qui non viene in gioco solo l’eterna fame di poltrone che mette i crampi allo stomaco alla politica italiana. Né l’abuso del termine (è alle viste una «costituente socialista»), benché qualche grammo di moderazione sarebbe ben accetto. Dopotutto, se i partiti convocano assemblee costituenti per confezionare i propri statuti, significa che li ritengono importanti come la Costituzione dello Stato, e significa altresì che ciascuno partito pensa d’essere lo Stato. Anzi di più, se la forza sta nei numeri. Tanto per dire, la Costituente (quella vera), eletta nel 1946 per redigere la nostra Carta repubblicana, era composta da 556 deputati. La Convenzione di Filadelfia, che nell’estate del 1787 scrisse la Costituzione americana, fu un cenacolo di 55 persone. Eppure due secoli dopo quella Costituzione è ancora lì, e regge un Paese di 300 milioni d’abitanti. Difficile che la costituente del partito democratico sappia fare meglio.

In realtà, con questi numeri, sarà già difficile farla funzionare. Intanto dove si riuniranno i 2.460 delegati, allo Stadio Olimpico di Roma? E come potrà mai garantirsi a ciascuno il diritto di parola? Se anche la costituente lavorasse 5 giorni a settimana per 8 ore di fila, come l’operaio di un’industria metallurgica, i delegati avrebbero a disposizione 10 minuti ogni 2 mesi per prendere il microfono. Evidentemente ci s’attende che i più disertino i lavori, oppure che rimangano buoni e zitti al proprio posto. Sicché la costituente democratica ha già in canna la sua prima invenzione: il costituente muto.

Sarà che in Italia la sinistra coltiva un talento speciale per i grandi numeri, dalle 281 pagine del programma di governo (record nazionale) ai 1.365 commi stipati in un articolo dell’ultima legge finanziaria (record del mondo). Sarà che noi italiani riusciamo a complicare pure le faccende facili, e infatti la semplificazione non passa mai di moda, è un traguardo che ogni legislatura rimanda alla legislatura successiva. Sarebbe un traguardo per lo stesso Partito democratico, vista la pletora di organi, di regolamenti, di procedure che già imbraca il pachiderma. Però del Partito democratico s’avverte un gran bisogno, non foss’altro che per rendere governabile il paese. E a sua volta quest’impropria assemblea costituente deve rendere governabile il partito: ne elegge il segretario, stila il manifesto, compone lo statuto. Se ci riuscirà nonostante la calca dei suoi 2.460 delegati, celebreremo l’ennesimo miracolo italiano.