(29 Ago 07)
Massimo Franco
Con un paradosso, si può dire che ha rassicurato Romano Prodi, ma non i prodiani. Il sarcasmo riservato da questi ultimi a Walter Veltroni conferma un pregiudizio radicato verso il candidato-principe alla segreteria del Partito democratico. La diffidenza ulivista contro i partiti che lo hanno lanciato sembra tuttora superiore alla fiducia in Veltroni e nelle sue rassicurazioni. Il premier, tuttavia, dopo averlo incontrato ieri, ha detto che il colloquio è andato «benissimo» .
Lo stesso premier ha incaricato il ministro Santagata di stemperare le polemiche. Per ora, il destino del sindaco diessino di Roma rimane quello di parafulmine delle tensioni fra Prodi e Margherita. Nell’intervista al
Corriere ha escluso di andare a Palazzo Chigi prima del voto; ma pare che non basti.
Veltroni sa che il presidente del Consiglio diffida del modo in cui Ds e Margherita lo hanno indicato come prossimo leader del centrosinistra. E sa anche che l’incubo dominante nella cerchia prodiana è quello di un «nuovo 1998»: una crisi di governo e la sostituzione del Professore, senza andare immediatamente alle urne. Il fatto che il sindaco capitolino abbia precisato che non si presterà mai ad una simile operazione, ha prodotto uno strano effetto. Da una parte, ha tolto un alibi a chi si ostina a considerarlo l’uomo chiamato ad archiviare quanto prima Prodi. Ma dall’altra non ha potuto esorcizzare l’impressione che altri fantasmi stiano svolazzando intorno a Palazzo Chigi.
Pesano l’investitura data a Veltroni dal presidente del Senato, Franco Marini, e dal vicepremier diessino Massimo D’Alema, additati come «congiurati» per antonomasia nella crisi di nove anni fa; e la sua silhouette oggettiva di leader senza concorrenti. L’ironia del ministro Arturo Parisi sulle «candidature ufficiali e sottufficiali » e le allusioni pesanti di Franco Monaco ad un Veltroni o complice o prigioniero, non promettono tregue, anzi. A ben guardare, il tema centrale rimane quello del rapporto fra il Pd e il governo nato dal voto di un anno e mezzo fa. A dividere è l’analisi agli antipodi su meriti e demeriti del premier.
Leggendo Europa, quotidiano della Margherita ed esegeta ruvido delle tesi di Marini e di Francesco Rutelli, Veltroni è la risposta alle difficoltà governative, non la loro causa. La «discontinuità » che il sindaco è chiamato a marcare nascerebbe dall’inadeguatezza della coalizione prodiana; e dall’esigenza di chiudere il «bipolarismo coatto dell’era Prodi-Berlusconi ». È lo schema che fa insorgere il premier ed i suoi sostenitori; e che alimenta i sospetti di una resa dei conti già programmata subito dopo la nascita del Pd, a metà ottobre. L’offensiva ulivista contro Veltroni, e le bordate di Rosy Bindi ed Enrico Letta, suoi concorrenti, sono anche figlie di questa tensione. È un tentativo di tenerlo sotto pressione; e di fargli assumere un ruolo di mediazione e quasi di argine fra Palazzo Chigi e chi è sospettato di preparare il «golpe» autunnale.
L’obiettivo è di far saltare lo schema di una «discontinuità» inesorabile e inevitabile per salvare la coalizione; e di rinviare il più possibile l’uscita di scena di Prodi. Ma Veltroni ripete di avere bisogno di tempo per consolidarsi, e dunque di essere il primo sostenitore del governo. E dal modo in cui il presidente del Consiglio si è mosso nell’ultimo mese, la sua sopravvivenza politica non sembra ancora agli sgoccioli. La prospettiva di restituire il Paese al centrodestra berlusconiano di qui a sette mesi è un formidabile argomento per frenare la voglia di voltare pagina. Ma il futuro di Prodi dipende più dal suo governo e dalla capacità di risalire la china dell’impopolarità, che dall’appoggio di Veltroni.